Nel “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere” sottoscritto dall’Italia e dal Governo di riconciliazione libico compare più volte – come sinonimo di migrante non regolare – il termine “clandestino”.
Se, come ci auguriamo, si è trattato di una distrazione, è una distrazione grave. Sono passati poco più di due anni da quando, su richiesta del presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, il termine clandestino è stato cancellato dagli atti ufficiali prodotti dalle autorità italiane e anche dal sito del ministero dell’Interno dove, fino al dicembre del 2014, continuava a comparire.
Il termine clandestino è, in primo luogo, giuridicamente scorretto quando viene utilizzato per indicare – anche prima che abbiano potuto presentare domanda d’asilo e che la domanda sia stata valutata dalle apposite commissioni territoriali – i migranti che tentano di raggiungere, o raggiungono, il territorio dell’Unione europea.
Si tratta, inoltre, di un termine che contiene un giudizio negativo aprioristico – suggerendo l’idea che il migrante agisca al buio, nascondendosi alla luce del sole, come un malfattore – ed è contraddetto dalla realtà dei fatti. Gli immigrati, anche quelli irregolari, non si nascondono al sole.
Al contrario, spesso lavorano sotto il sole, dall’alba al tramonto, nei campi e nei cantieri. E prima ancora, quando attraversano il Mediterraneo, partendo dalle coste libiche fino a raggiungere, se fortunati, quelle italiane, non lo fanno nascondendosi.
L’Associazione Carta di Roma – dal 2011 impegnata nel tentativo di far rispettare il codice deontologico che i giornalisti italiani si sono dati in relazione ai servizi dedicati a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti – illustra costantemente questo concetto elementare in tutte le sue attività di formazione. Con un certo successo considerato che – come rilevato anche nell’ultimo rapporto su immigrazione e media – l’uso improprio della parola clandestino va diminuendo. Sempre più spesso l’utilizzo di questo termine non è frutto di distrazione o di disinformazione, ma della volontà affermare un’idea aprioristicamente negativa, e xenofoba, dell’immigrazione.
La sua ricomparsa sistematica nel testo dell’intesa tra il governo italiano e il governo libico nei fatti accredita – al di là delle intenzioni di quanto l’hanno redatto e sottoscritto – l’idea che gli immigrati non siano esseri umani, titolari di diritti, ma nemici da combattere. La parola clandestino è uno dei lemmi dell’hate speech, il discorso d’odio.
L’articolo 7 del Memorandum dell’intesa tra Italia e Libia prevede che il testo dell’accordo possa essere “modificato a richiesta di una delle Parti, con uno scambio di note, durante il periodo della sua validità”. Si tratta di una procedura semplice, che può e deve essere immediatamente attivata.
La soluzione potrebbe essere, inoltre, ancora più facile, qualora l’uso del termine clandestino – con l’accezione negativa che porta con sé – si limitasse alla sola versione italiana del documento.
Quella parola va cancellata subito.
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