Di Luigi Manconi
La campagna d’estate della Lega nord e di alcuni organi di informazione è stata una mobilitazione di odio. Mi chiedo: perché?
E non si tratta di una domanda ingenua. In altre parole, perché mai la critica più radicale alle politiche del governo italiano e a quelle dell’Unione europea in materia d’immigrazione e asilo e la proposta di strategie totalmente alternative devono comportare la degradazione della persona del migrante e del profugo?
Questo è, infatti, il contenuto profondo e la forma linguistica del messaggio xenofobo: non un’argomentazione politica, bensì uno sfregio morale che deve –proprio per potersi efficacemente realizzare – richiamare un fondamento razzistico. Sembra, cioè, che l’agitazione della Lega in materia d’immigrazione non possa non fondarsi su una “politica del disgusto”: un’opera di svilimento, che mira a sfigurare il proprio bersaglio, come premessa per così dire morale a un’attività di esclusione e discriminazione.
Una politica che si fonda necessariamente su una concezione gerarchica degli uomini, dei popoli e delle etnie e su una inevitabile classificazione di essi secondo i tradizionali criteri di “superiorità” e “inferiorità”. Questa concezione che costituisce il fondamento del razzismo e che essa sola giustifica il ricorso a un termine così gravemente denotativo – razzista, appunto – raramente oggi viene così esplicitamente teorizzata e adottata.
Infatti, il razzismo nelle società democratiche è tuttora soggetto a interdizione morale e politica, fino a rappresentare un residuale tabù. Un tabù fragile e precario, e tuttavia ancora attivo: sia perché i valori universalistici degli stati democratici negano qualsiasi legittimità alle teorie razzistiche, sia perché permangono in quegli stati – come in Italia, per esempio – consistenti tracce delle culture solidaristiche, di matrice egualitaria: religiosa o laica. Dunque non può darsi – come ispirazione per le politiche per l’immigrazione – una classificazione degli esseri umani quali titolari o meno di dignità e meritevoli o meno di protezione in base alla nascita, alla provenienza geografica, all’appartenenza a un’etnia o a una classe sociale o a un sistema di cittadinanza.
Ma quella stessa classificazione gerarchica, formalmente interdetta, emerge ancora e con violenza, sia pure in maniera indiretta e mediata. E si rivela grazie a un indicatore inequivocabile: ovvero il deprezzamento della vita di una parte degli esseri umani nella percezione di un’altra parte di esseri umani. È questo che rende il ragionamento sul razzismo particolarmente delicato.
Aver accettato – come tutti abbiamo accettato – che appena al di là dei confini nazionali, nell’ultimo quarto di secolo si consumasse una strage ininterrotta di migranti e profughi, affogati nel Mediterraneo, costituisce un efficace metro di valutazione della tenuta dei principi ai quali diciamo di ispirarci. Dà la misura, cioè, di quale sia nei fatti il valore reale che attribuiamo alla vita di quegli esseri umani. Un valore che, certamente, non è lo stesso che assegniamo alla vita dei membri della nostra comunità.
In altri termini, per sopportare il perpetuarsi di quell’ecatombe nel canale di Sicilia, è stato necessario accettare di considerare quei morti come sottouomini. E non è forse questa la base morale di un razzismo non solo non dichiarato, ma – anzi – esplicitamente rifiutato? E non è forse quella stessa base morale così diffusa presso tutti o molti a legittimare che presso pochi, singoli o gruppi o partiti, si manifestasse un’ostilità nutrita di odio?
Intendo dire che quella concezione gerarchica degli esseri umani che consente la degradazione degli “inferiori” e che motiva le politiche dell’esclusione, trova la sua giustificazione nel fatto che la svalutazione della vita di quegli “inferiori” sia diventata senso comune e mentalità condivisa. Anche quando tutto ciò resta implicito o viene addirittura negato con sdegno.
Insomma, l’indifferenza di tutti verso i morti nel Mediterraneo può arrivare a spiegare l’odio di pochi verso i sopravvissuti ai naufragi. Non a caso, i sommersi vengono definiti vittime, i salvati sono etichettati come “clandestini”.
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