A una settimana dal mio arrivo in questa città del nord d’Europa ho fatto mio l’imperativo che accomuna tutti noi migranti: la sopravvivenza. Semplici mosse per affrontare le giornate senza cadere nella disperazione.
Qualcuno potrebbe esclamare: «Neanche si trovasse in trincea!». Avete ragione. I migranti economici – come me – non si trovano in una vera e propria trincea, ma ogni posto in tempo di crisi è una trincea. Quando si arriva in un nuovo paese, le poche sicurezze che uno aveva costruito crollano come un castello di sabbia.
Oppure: «Hai una professione». Sì, ma qui non si può pensare di trovare un lavoro alle stesse condizioni, senza avere – tra gli altri requisiti – la perfetta conoscenza della lingua locale.
E ancora: «In Italia hai una casa». È vero, ma ora e qui non ce l’hai. Nei migliori dei casi dormi nell’appartamento di qualche parente o in una stanza con gente mai vista. Su un divano, per terra, in tre, cinque…
«E il tuo capitale? Sarai partita con un po’ di risparmi». Certo, ma non si è in vacanza, quindi tutto deve essere calcolato e ragionato. Quando il lavoro non c’è, sono più i soldi in uscita che in entrata. E se si è scelto un “paese ricco”, vuol dire che il costo di vita è superiore a quello che in Italia ti puoi permettere.
Per spiegare meglio la sensazione, la si potrebbe descrivere come quando in un sogno si cammina nudi per strada: intimoriti, vulnerabili, soli. Così è trascorsa la seconda settimana.
La città si sveglia di buon’ora e verso le 5 del mattino si sentono già i passi nel corridoio, ascensori che si aprono e chiudono, voci al di là dei muri. Un condomino ha diritto un giorno alla settimana a fare la lavatrice e ad asciugare i suoi panni nel seminterrato del palazzo, dietro il pagamento di circa 4 euro. Spesso i condomini lo fanno al mattino prima di andare a lavorare, questo per lasciare libero e pulito per quello che verrà dopo di lui.
Un nuovo paese può significare anche un clima diverso e qui a prevedere il maltempo è un gallo di metallo. In questa seconda settimana non è stato clemente.
E poi fuori. Si esce. Vicino all’appartamento dove ho trovato accoglienza, si trova un gallo di metallo sul campanile di una chiesa protestante. La sua storia mi è stata raccontata così: «Dicono che sia un simbolo cristiano, rappresenta le tre negazioni di San Pedro fatte a Gesù dopo l’Ultima Cena. A noi permette capire come sarà il tempo. Se guarda a nord, ci sarà bel tempo, se guarda a sud il contrario. Non sbaglia mai». Il gallo in questa seconda settimana dal mio arrivo non è stato molto benevolo.
All’ora di colazione i migranti si ritrovano in una mensa, non distante dal centro, dove viene offerto del caffè, tè, latte, formaggio, pane, biscotti e frutta e a mezzogiorno il pranzo. Prima di entrare bisogna lasciare il proprio nominativo, perché si può accedere solo una volta. I tavoli sono pieni di cibarie. Le mani dei migranti sembrano sorridere. Dal caldo e dall’abbondanza. Non importa se la durata di questo benessere durerà qualche ora, in fondo nessuno di noi ha la certezza di cosa accadrà domani. Viviamo nell’attesa di qualcosa di meglio e insieme in questa mensa sembriamo remare contro la malinconia.
Ho sempre pensato che non ci sia miglior amico che un compagno di viaggio. Ma trovarlo qui non è facile. «Dimenticati di fare amicizia, qui ognuno pensa per sé». È il monito che mi hanno fatto, prima di scendere per le vie della città.
Vorresti fare amicizia con chiunque ti passa vicino, o appena senti lo sguardo di qualcuno fissarti. Ma se c’è qualcosa di cui noi migranti andiamo fieri, quella è la determinazione. Non dico di aver trovato degli amici, ma delle persone solidali sì. Un ecuadoriano mi ha consigliato: «Devi fare la tessera che ti permette la raccolta di alimenti. Una volta alla settimana potrai prenderli nei locali di una chiesa. E se hai bisogno ti danno anche dei vestiti».Un altro mi ha spiegato che «in un centro aiutano gratuitamente per le infinità di pratiche burocratiche che bisogna fare nel momento in cui decidi di stabilirti definitivamente».
I consigli dei veterani sono preziosi, ma anche la presenza fisica lo è. «Ti accompagno a presentare un curriculum, visto che tu non parli ancora la lingua. Non ti preoccupare, non è un disturbo, approfitta che oggi non lavoro e posso aiutarti». Credo che non esistano persone buone o cattive, ma solo dure di cuore. E che ci sia sempre una storia dietro a ogni corazza. Anche in questo paese l’integrazione per gli immigrati non è stata facile. Avere un documento in regola era – ed è – come vincere a una lotteria. O avere una casa, l’assicurazione sanitaria.
Tra i punti di ritrovo principali il centro dove vengono distribuiti alimenti a chi ne ha bisogno. In città non mancano le iniziativa che offrono sostegno.
Oggi, anche nel paese del “gallo puntatore” c’è una seconda generazione nata o cresciuta qui, ma le cose non sono molto cambiate da quando arrivarono i loro genitori. Anche chi ha un passaporto europeo talvolta ha attraversato vicissitudini da stringere il cuore. «Sono nato in Ecuador e ho vissuto per alcuni anni in Spagna, ottenendo il passaporto spagnolo. In questo paese sono arrivato in macchina, dove ho dormito per tre mesi. Cercavo di parcheggiare in posti lontani dal centro, per non dare nell’occhio con la targa spagnola, altrimenti la polizia ti ferma, fa troppe domande e può scoprire che non sei qui come turista bensì in cerca di un lavoro. E allora ti registrano e, scaduto il tempo di permanenza, devi andartene. A quei tempi non conoscevo la lingua né i luoghi, ma dovevo trovare un lavoro, prima che i miei risparmi finissero. Per mangiare andavo alla Caritas, a pranzo e a cena. E mi lavavo nei parcheggi».
C’è anche chi è arrivato senza macchina: «Ho dormito nella stazione del treno per due mesi. La mia barba era cresciuta e io ero diventato irriconoscibile. Per il mangiare e i vestiti non c’erano problemi, qui ci sono molti punti di sostegno, ma quando il lavoro non c’è e non hai una casa o un amico con cui confidarti, il morale va a terra e il volto inizia a marcarsi. Nessuno mi ha aiutato, ho dovuto farmi strada da solo. Ora sono passati tre anni e vivo con altri giovani, penso però che tornerò nel mio paese fra qualche mese. Qui non ci voglio restare. Ho già messo da parte il denaro sufficiente e speso gran parte della mia vita come migrante».
Domenica Cachano
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