Per il nostro incontro Luis ha scelto un bar del centro. Non uno qualsiasi, ma quello in cui per la prima volta è entrato appena arrivato in questa città. Era il 24 marzo del 2011. «Dopo tante ore di viaggio dalla Spagna, la mia ragazza si era sentita male. Arrivati in questa città ci siamo fermati in una piazza e una donna, nostra connazionale, si è avvicinata per offrirci aiuto. Ci ha portati in questo bar per prendere un caffè. Lei si chiamava Magaly e con lei ho conosciuto la solidarietà».
Luis oggi ha 49 anni, ma già a 12 aveva le responsabilità di un uomo maturo, era il primo maschio di sette fratelli nati a San Vicente, nella provincia di Manabì, in Ecuador. Sul suo tavolo il cibo veniva servito una volta al giorno. Quando era ancora un bambino, suo padre lo portava nel suo peschereccio per lavorare, conosceva a memoria i nomi dei pesci più delle regioni del suo paese. Dopo le medie si dedicò completamente al lavoro e alla sua famiglia. A 18 anni era pronto per il matrimonio e poco dopo per l’arrivo di tre figli. Entrò nella Marina militare fino alla sua partenza per l’Europa. Nel duemila, spinto dalla separazione dalla moglie, scelse la Spagna per ricominciare da capo. Dopo due anni di residenza legale gli fu concesso il passaporto europeo. Documento che ora porta in tasca e gli permette attraversare tutte le frontiere europee. Da cinque anni Luis vive nella città del «gallo puntatore» e mi racconta della sua esperienza nell’ennesima giornata di pioggia.
Luis in Ecuador, dove intende tornare a vivere. Con questo obiettivo, ha già acquistato alcuni pescherecci nel suo paese di origine.
Qui sei arrivato con il passaporto europeo, ma come è stato nel duemila il viaggio dall’Ecuador verso la Spagna?
«È stato come aver vinto alla lotteria. A quell’epoca gli ecuadoriani non avevano bisogno di un visto, soltanto di un invito e di circa tremila dollari per soggiornare, per un massimo di tre mesi. Non avevo né uno né l’altro: alla posta avevano perso il mio invito e i soldi non li avevamo. Avevo solo cento dollari: li cambiai in biglietti da un dollaro, puoi immaginare quindi la dimensione del mio portafoglio. Impressionò anche quelli alla dogana che mi lasciaranno passare. All’aeroporto ad attendermi non c’era ancora mia sorella, per paura presi il primo taxi e andai nel centro di Madrid, non avevo le pesetas ma solo dollari, una spagnola mi regalò dei soldi per telefonare e cercare il mio compadre, che sapevo abitava a Madrid. Trovai il suo appartamento e aspettai mia sorella, quella notte abbiamo pianto di allegria. Ce l’avevo fatta. Mi era stata data l’opportunità di ricominciare con la mia vita».
E perché sei ancora emigrato?
«Nel 2011 in Spagna la situazione era molto difficile: non c’era più lavoro come prima. Prima di emigrare ho fatto uno studio sui paesi più ricchi: dove c’èra richiesta di mano d’opera, quanto si guadagnava, i servizi, ecc. Alla fine scelsi il paese del “gallo puntatore”, che è tra i più ricchi del mondo. In quel periodo il lavoro lo trovavi stando in piazza o per strada: “domani c’è da fare questo, vieni?”, chiedevano. Iniziò il boom dell’emigrazione interna all’Europa. Ma c’è anche chi ha rinunciato ed è tornato indietro perché non ce l’ha fatta a riadattarsi».
C’è stato un momento in cui ti sei sentito abbattuto?
«Dalla Spagna ero partito in macchina, come hanno fatto molti di noi. Quello quindi era il mio albergo, il mio armadio, la mia cucina, la mia casa. Il viaggio l’ho intrapreso con la mia ragazza dell’epoca, la facevo dormire in un centro di aiuto, assieme ad altre donne. Si pagava circa cinque euro. Era tutto meticolosamente calcolato. Non potevamo spendere senza avere un lavoro. Io quindi dovevo dormire in macchina. E lo feci per circa tre settimane. Ma dopo una settimana, in piena notte, mi svegliai per il freddo. Che strano, dissi, mi ero portato tante coperte, perché anche se era marzo qui fa sempre freddo. Dormivo con due pantoloni e due calzini. Ma ero bagnato dalla cinta in giù. Qualche ora prima avevo aperto il finestrino per allungare le gambe e l’acqua mi avevo tutto inzuppato, non mi svegliai subito perché durante il giorno caminavamo così tanto in giro per i piccoli comuni in cerca di un lavoro, che la sera dormivo profondamente. Mi sono messo a piangere proprio in quel momento e mi sono chiesto cosa avessi fatto in questa vita per ricevere questo».
E hai pensato di rinunciare?
«No, mai. Neanche quando ho dormito per giorni in macchina. Se una persona ha l’obiettivo ben chiaro non ci rinuncia. Io ho ancora dei progetti da realizzare, ancora un po’ di tempo e poi torno in Ecuador. Sono molto grato a questi paesi, ma l’Europa non è per me. Qui rendo più ricco chi già lo è. In Ecuador voglio essere io a offrire lavoro».
A cosa ti dedichi ora?
«Ora sono disoccupato. Lavoravo in una macelleria, ma ho fatto un po’ di tutto, anche il muratore e le pulizie».
Quando tornerai in Ecuador, cosa vorresti fare?
«Ho già fatto degli investimenti, comprato alcuni pescherecci. E poi vorrei aprire un negozio di alimenti».
Qual è il ricordo più bello che ti porterai dietro?
«L’incontro con il mio capo. Grazie a lui ho avuto una casa dove vivere. Mi ha dato una residenza che mi è servito per rimanere qui e ottenere il permesso di lavoro. La solidarietà è grande, ma anche l’invidia tra alcuni connazionali. Chi è arrivato dieci o vent’anni fa ci vede come rivali. Noi con passaporto europeo possiamo ottenere il permesso di lavoro rapidamente, mentre loro non escono neanche di casa per paura dei controlli. Ma non si rendono conto che quella vita l’abbiamo vissuta tutti, chi oggi e chi ieri».
Domenica Canchano
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