Il racconto di Nicola: “L’Italia in questo momento non può offrire a tutti quello che vogliono, per questo molti giovani se ne vanno”
Nicola sparge sul tavolo bigliettini da visita di un hotel e di un’agenzia di lavoro. Sono per me. Dice di prepare un curriculum eccellente e promette di accompagnarmi in questi luoghi. Siamo in un pub e questa è la seconda volta che incontro Nicola. L’ho conosciuto su Tinder, la dating app più in voga del momento. Pure qui, nel paese del Gallo, conosciuto per il suo fiabesco paesaggio ma con la fama di essere molto freddo e severo.
La mia amica Eleonora me l’aveva suggerito forse due anni fa. Lei, genovese emigrata a Londra in cerca di migliori opportunità, mi disse che l’applicazione era fichissima, che aveva fatto un sacco di amicizie e di incontri interessanti. Bastava fare “match“, diciamo un colpo di fulmine reciproco ed era fatta, si inizia a chattare. All’inizio mi sembrava una perdita di tempo e poi all’epoca avevo una catapecchia di cellulare che era già tanto se rispondevo alle telefonate. Sapete, era diventato come quei cellulari che a fine mandato si accendono da soli, rispondono pure da soli o chiudono la chiamata senza più bisogno di digitare nulla.
Confesso che per la curiosità l’ho scaricata subito dopo essermi comprata il primo iPhone 6. Quasi un anno fa. Ma non ho avuto la costanza e dedizione che ci vogliono, così dopo un po’ ho chiuso.
L’ho riaperto un mese fa, ed eccomi davanti a Nicola, 39 anni, senza nessuna descrizione particolare, solo il suo nickname, Giosa. Qualcosa mi diceva che era italiano.
«Sono italiano, piacere! E tu?».
«Piacere mio! Sto imparando la lingua locale, per ora è pessimo. Sì, arrivo da Genova, e tu?».
«Ok, non è difficile. Basta avere delle amicizie con le persone del posto. Io sono di Napoli. Cosa fai di bello qui?».
«Sono stata a novembre dell’anno scorso. La tua città è magnifica».
«Grazie!».
«A lavorare (spero)».
«Anche Genova non è male. Ah! Stai cercando, cosa ti piacerebbe fare? Qui c’è lavoro, non come in Italia. Mi dispiace dirlo ma è così. Sono arrivato nel 2011 con un contratto, lavoravo in un albergo come cuoco».
Dopo alcune settimane ci siamo incontrati una sera davanti a una birra.
A quanti anni sei uscito di casa?
«Avevo 13 anni. Ero andato a studiare Milano, poi Londra, ora qui».
Ti piace fare il cuoco?
«Cuuu-oo-coo, è una bella parola. Non lo senti? Mi fa venire in mente il film di Totò, “Miseria e nobiltà”. Comunque il mondo della ristorazione è difficile, ma è il posto dove più facilmente trovi lavoro. Potresti portare il tuo curricula in qualche ristorante italiano, così fanno molti italiani quando arrivano».
Io non ho mai lavorato in un ristorante, tranne qualche episodio occasionale.
«Io non avrei mai fatto come hai fatto tu. Non rischierei, lasciare tutto per ricominciare da zero, reinventarmi. Da tutta la vita faccio il cuoco. È stato già duro imparare un lavoro, mi piace quello che faccio perché lo so fare. Adesso è tutto in discesa».
Raccontami, com’è la tua giornata?
«Mi sveglio alle 5, un’ora dopo devo essere al lavoro. Prepariamo l’insalata, i panini per altri punti vendita dell’azienda. Alle 8 iniziamo a cucinare per il ristorante: cucina italiana, internazionale. Da noi mangiano al giorno circa cento persone e siamo due cuochi».
Come hai trovato questo lavoro?
«Era il posto di un mio amico che è andato via. Io ero a Londra, ho vissuto lì per 6 anni. Pensavo di andarmene, poi arrivò la telefonata del mio amico, mi si aprì un bel portone».
Sai, uno dei primi consigli che mi hanno dato è stato quello di non frequentare gli italiani…
«L’italiano è visto come quello di una volta, lo sfruttatore che si approfitta dei suoi connazionali, cerca di fare i soldi sulla pelle degli altri. Una volta si emigrava per fame, ora si emigra per avere delle migliori opportunità. I ragazzi hanno investito su loro stessi, tu stessa da quello che ho letto hai fatto tanto prima di arrivare qui e non ti va più bene quello che l’Italia ti offre. L’Italia in questo momento non può offrire a tutti quello che vogliono, per questo molti giovani se ne vanno».
Oltre alla sciarpa di Napoli che ti sei portato, che cosa ti ricorda la tua città?
«La musica. Mi piacciono i 24 Grana, anche se ora si sono sciolti. Ascoltati: “Turnamme a casa”. Mi fa un senso di armonia. Mi piace il ritornello quando dice “chiudi gli occhi e aggrappati a me”, penso che abbia qualcosa di fraterno».
Hai pensato di tornare veramente a casa?
«No, qui sto bene, anche se manca la mia famiglia, il Vesuvio e la gente di Napoli».
Domenica Canchano