Il 4 novembre 2015, neanche un anno fa, lo Stato italiano mi ha concesso la cittadinanza italiana dopo 24 anni di residenza.
Secondo voi, da allora qualcosa è cambiato per me? Burocraticamente parlando sì: ora posso votare, partecipare ai concorsi pubblici, accedere agli ordini professionali e, finalmente, muovermi liberamente per la comunità europea. Cosa che ho fatto cinque mesi dopo, lasciando (temporaneamente) l’Italia per il paese del Gallo.
Mi sono sempre chiesta se, dopo aver ottenuto la cittadinanza, fossi considerata davvero italiana.
Però mi sono sempre domandata se dopo aver ottenuto la cittadinanza sono italiana davvero per tutti. A me è parso di no, sia il giorno prima aver giurato di fronte a un funzionario pubblico che il giorno dopo, mentre mi impegnavo nel mio lavoro di giornalista. «Ma come, non eri già italiana?», «Perché non l’hai ottenuto prima: forse avevi fatto qualcosa di sbagliato?», oppure «Come ti devo chiamare ora, concittadina?». E ancora: «Tu sei diversa dagli altri, te lo meriti».
È come se il significato di identità italiana fosse un enigma. Un enigma che solo in pochi sanno risolvere.
Di fronte a queste affermazioni, dove spesso il mio interlocutore risalta le differenze in negativo, la mia reazione oscilla tra l’incredulità e l’amarezza. Con il passare del tempo il sentimento prevalente è diventato quello della rassegnazione.
Ho sbagliato, dovevo indignarmi con più decisione, questionare le mediocri affermazioni, ribattere che non esiste un’unica identità italiana, che io non sono meritevole né più né meno di qualcuno altro, che tutte le azioni individuali non determinano una sola e unica condizione, tantomeno una forma di generalizzazione empirica. Senza soffermarmi troppo ho pensato che non fosse una mia responsabilità.
E invece lo è. Per me, per te che leggi, per gli altri che si sono trovati in questa situazione e non hanno saputo cosa fare.
Di fronte a certe frasi discriminatorie, di odio, non c’è neanche da argomentare, perché vengono dette solo per provocare e non creare un sano dibattito. Le parole, quelle più insultanti, sono di per sé violente e, in casi non più episodici, veicolano azioni violente, criminali.
Da marzo vivo nel paese del Gallo. Anche qui razzismo e discriminazione esistono.
Sono nel paese del Gallo, al nord d’Europa, un paese ricco e pieno di opportunità, dove su circa 120 mila residenti oltre il 40% ha il passaporto straniero. Per strada si sentono quasi tutte le lingue del mondo: spagnolo, portoghese, inglese, arabo, francese. Ma non è il paradiso dell’integrazione, è solo un paese come un altro: anche qui ogni giorno ci sono persone che subiscono atti di razzismo (anche se i media non se ne occupano largamente), persone ghettizzate e quelli che vivono rinnegando le loro radici di migranti, quelli che che vivono nell’ombra per non essere deportati, ma anche chi riceve ogni forma di aiuto perché scappato da guerre sanguinarie.
Forse Emmanuel Chidi Namdi – fuggito dalla Nigeria da Boko Haram, con sua moglie, e ora tristemente deceduto per mano di un uomo che gli ha vomitato il suo odio insultatandolo e ammazandolo – si sarebbe trovato bene qui. Ma bene non vuol dire essere pienamente accettati per quel che si è. Non esiste, purtroppo, un’isola felice immune dal virus del razzismo. E questo vale anche per “l’ospitale” paese del Gallo.
Domenica Canchano
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