Un nuovo paese, una nuova lingua, l’attesa che accada qualcosa. Tra incertezze e timori è trascorsa la terza settimana
È la terza settimana e il mio stato d’animo è a pezzi. Credo che ne arriveranno altri di momenti del genere ma questi giorni, segnati dall’incertezza e da un senso di vuoto esistenziale, risvegliano in me molti ricordi e domande.
Le mie incursioni in alcune chiese del posto hanno stimolato le mie riflessioni e la mia memoria. Di come per esempio mia madre è arrivata in Italia 25 anni fa.
Mi sono chiesta: come ha fatto i primi giorni in un paese straniero? Mi ricordo un’episodio, quando quattro mesi dopo ero arrivata anche io; avevo 11 anni, un giorno mi portò con sé al supermercato. Ero rimasta a bocca aperta perché parlava una lingua a me sconosciuta ed ero così fiera di lei. La trovavo così forte, sicura di se stessa, per niente intimorita. Ora, mi chiedo: i primi giorni avrà avuto gli stessi timori che io ora provo? Cosa le dava forza per affrontare quella nuova vita? A lei, mamma di due bambine, vedova, con un debito da cancellare per il viaggio, non era concesso arrendersi.
Ma non solo a lei. Quante persone ho avuto l’onore di conoscere simili a lei.
Ho pensato spesso anche agli amici lasciati a Genova, ricordo con nostalgia un gruppo di giovani rifugiati scappati da violenze, guerra, fame. Quando parlavo con loro ci scambiavamo diversi punti di vista. O semplicemente mi raccontavano come era la loro vita prima di arrivare in Italia. La loro traversata partiva dal Centro Africa, dal Medio Oriente o dalla Grecia ed era stata fatta a piedi, in macchina e un barcone.
Quando sono partiti in cerca di “una vita migliore” erano tutti minorenni. Ad alcuni i genitori erano morti dopo l’attacco ai villaggi da parte di integralisti islamici. Hanno visto l’orrore con i loro occhi. E non hanno avuto altra scelta che fuggire. A Genova erano molto spaesati ma sempre sorridenti, sicuri di una sola cosa: «Qui ci rimango, non torno indietro». Dopo tutto quello che hanno vissuto possono ancora sorridere? Mi chiedevo. I miei amici rifugiati facevano molte domande, ma parlare di loro stessi era come riaprire una ferita. Riuscivamo a comunicare mischiando l’italiano, l’inglese e un po’ di francese. Si stupivano perché io li ascoltavo.
Un giorno mi dissero una cosa che mi è rimasta impressa: «Qui, nessuno vuole fare amicizia con noi». E ancora: «Quando per strada qualcuno ci passa vicino, noi salutiamo, ma a noi non rispondono mai», «A nessuno interessa sapere qualcosa di noi: perché siamo qui».
Le motivazioni del loro arrivo, ovviamente, sono molto diverse, ma c’è una cosa che ci accomuna: non ci fa paura ricominciare da zero.
Domenica Canchano