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Incendio a Payerne

La paura e il dolore di fronte alle fiamme espressi in tanti idiomi diversi. Un’occasione per ricordare

La nube di fumo si vedeva a diversi chilometri di distanza ed era alta fino a coprire il sole di un pomeriggio primaverile. Fino alle 15 di domenica Payerne viveva in un’oasi di tranquillità. Dopo erano fiamme e paura. In un paesello di circa 9 mila abitanti vedere un via vai di persone allarmate e impaurite per le strade ti disorienta e commuove. Due piani di un palazzo nel pieno centro presi dalle fiamme non si può non raccontare come un grande orrore. Se alla fine poi si scopre che le fiamme hanno coinvolto altri due palazzi e lasciato un morto ancora da identificare, allora l’accaduto diventa una grande tragedia.

Alle 16 di quella domenica la viabilità va in tilt, cominciano ad arrivare persone anche da fuori, «il fumo si vedeva dalla mia finestra, e io abito a 10 chilometri da qua», mi dice un giovane che continua ad avere lo sguardo rivolto agli edifici.

«Quel dommage!» sento dire in francese a un altro uomo con i figli intorno alle sue gambe. «In pieno centro della città, questo non si dimentica facilmente dalla memoria» conclude il suo pensiero.

A vedere la scena di fiamme e fuoco ci sono anche io. Ascolto commenti di ogni tipo e in varie lingue, portoghese, spagnolo, italiano, albanese. Sembriamo una catena umana intenta a guardare un falò che mai avremmo voluto accendere. I pompieri sparanno acqua da tutte le parti, piovono ceneri, pezzi di carta e si sente un forte odore  di acre. Un evento così eclatante non era mai successo. Qualcuno ricorda piccoli incendi, altri episodi ma che rimontano al tempo della guerra. C’è però una storia, ancora nella mente (e nella bocca) dei payernesi (e forse non solo). E si tratta dell’uccisione a sangue freddo di Arthur Bloch, mercante di bestiame, ebreo.

Era il 1942, anni di guerra, la Svizzera però – per ragioni economiche e tattiche – rimase sempre neutrale. Ma le restrizioni economiche ci furono e per la popolazione fu uno tra i momenti più bui vissuti. C’era la fame e il chomage (disoccupazione). Elementi che in qualsiasi società provocherebbero una profonda instabilità e precarietà. Payerne in quei tempi viveva soprattutto della produzione di salumi. Poi c’era il tabacco e il commercio di bestiame. E a spasso, su 5 mila abitanti, si trovavano circa 500 persone. Un terreno fertile per inculcare l’ideologia nazista. E per reclutare seguaci. Qui entra in scena un gruppo di cinque giovani deboli. Pensano che per giurare fedeltà a Hitler sia necessario compiere un atto eclatante, come la uccisione di un ebreo. Quello doveva essere un esempio per tutti, un atto che avrebbe dimostrato la loro virilità. È la mattina del 16 aprile 1942, un uomo di 60 anni si trova alla fiera del bestiame. I cinque lo conoscono. Lo seguono. Sanno dove trovarlo. E con la scusa di vendergli un bovino, lo portano in una stalla. Lo tagliano a pezzi e poi lo gettano in un lago. La storia è ben raccontata dallo scrittore svizzero Jacques Chessex nel suo libro “Un juif pour l’exemple”. L’anno scorso è uscito anche il film.

Chessex era stato criticato per aver reso pubblici i suoi ricordi (lui all’epoca aveva 8 anni e conosceva i protagonisti) e soprattutto per aver messo sotto una cattiva luce la comunità di Payerne. Fu accusato pubblicamente nel 2009 in una conferenza sul suo libro. Chessex fu aggredito verbalmente. Il suo cuore si fermò e morì.

Quante storie ancora si possono trovare, anche in piccoli villaggi come Payerne.

Doménica Canchano

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