20 aprile 2016
Di quella prima domenica di aprile che ha cambiato la mia vita ricordo la notte precedente. Quella degli ultimi abbracci, le benedizioni, le raccomandazioni dei parenti, e l’augurio di rivedersi presto. Al binario 8 della stazione centrale di Genova, il mio treno partirà tra qualche minuto verso un paese del nord Europa, dove non conosco né la lingua né ho un lavoro che mi attende.
È una scelta che è toccata prendere a me, ma nessuno è libero dal migrare. Lo dico per l’esperienza che mi porto nelle origini. Mi pongo, anche adesso, a scelta compiuta, tante domande: avrò preso la decisione giusta? Era questo il momento per partire? Perché ho scelto questo paese e non un altro? La mia mente e il mio cuore affondano in un mare di emozioni contrastanti. Una su tutte, la paura. Ma a chi lo dico? A mia madre, che ha lasciato il suo paese e due figli minorenni alla mia stessa età, ma oltre 25 anni fa, anche lei senza sapere la lingua o avere un lavoro? O a mia sorella? Che dovrà andare avanti senza una parte della sua famiglia? E allora mi affido a qualcuno in cielo, perché sulla Terra la strada te la devi fare da sola. E ringrazio. Grazie Italia, la strada me l’hai indicata tu e hai riempito questo bagaglio che mi porto appresso.
È qui, intorno a un tavolo di legno, che i migranti attendono il proprio turno al Centro di aiuto per immigrati.
Il giorno dopo, lunedì alle 9 del mattino, il Centro di accoglienza per immigrati apre le sue porte agli stranieri per aiutarli ad integrarsi. I primi dieci potranno avere un colloquio con un volontario e scrivere il curriculum vitae nella lingua locale. Ci sono due grossi tavoli di legno chiaro dove hanno sparso alcuni giornali, caffè, mele e pane. Alcuni sfogliano i quotidiani con interesse, altri si impegnano con il cruciverba. C’è una lista dove tutti hanno scritto il loro nome. Molti di loro cercano un lavoro, stilano un curriculum e cercano conforto. Può passare anche mezz’ora in attesa del proprio turno. Sono arrivata alle 9 e alle undici sono già entrate 6 persone. A mezzogiorno, alla chiusura, ci sarà ancora qualcuno ad attendere di entrare.
Al mattino del giorno dopo, c’è un via-vai di immigrati per le vie principali della città. Tra questi molti rifugiati che qui hanno trovato accoglienza. Hanno con sé una cartella con il curriculum. Una lista con gli indirizzi delle agenzie per il lavoro che è stata stilata dal “centro di appoggio”. Si va di persona, si bussa porta a porta e agli sportelli qualcuno parla l’italiano, lo spagnolo o l’inglese, farsi capire in questa città non è un’impresa difficile. Su circa 130 mila abitanti, il lavoro comincia a scarseggiare da un anno, mi confida qualcuno. «Il segreto è presentare un curriculum perfetto: con date, studi, referenze. Ma tutto deve essere verificabile, perché i datori di lavoro qui si prendono la briga di telefonare anche dall’altra parte del mondo per sapere se si scrive il vero».
Per trovare un lavoro c’è un altra opzione: pubblicare un annuncio sul giornale locale. Cinque righe su un box a fondo bianco costano sui 50 euro. Per chi cerca mansioni in casa, la miglior cosa è il passaparola o gli annunci nei supermercati. Il lavoro, dicono, arriva ma ci vuole pazienza. Nel frattempo ci si iscrive a un corso di lingua. I giorni della seconda settimana di aprile passano lenti, per chi è arrivato in questa città per lavorare ma ha le braccia incrociate, l’ansia cresce inevitabilmente. Si pensa allora di impiegare la mente in altre cose, distrarsi, per esempio facendo amicizia.
Il sabato, in un campo di calcio di cemento poco lontano dal centro urbano, un gruppo di circa una trentina di latinos si ritrova il sabato pomeriggio per giocare a calcio, pallavolo o ecuavolley. È un gruppo composto dalla nuova e vecchia immigrazione, qualcuno è arrivato oltre 20 anni fa direttamente dal paese di origine, qualche altro è emigrato per la seconda volta ed ha il passaporto europeo.
Quieta e dolce, rigida e lavoratrice. Così è la città del Nord Europa che mi ospita.
«C’è un po’ di egoismo da parte di alcuni vecchi immigrati verso quelli nuovi, perché loro non hanno i documenti in regola, mentre noi possiamo andare dove vogliamo e abbiamo poca difficoltà ad affittarci una casa. E poi pensano che gli roviniamo il mercato del lavoro. In realtà il lavoro c’è ma bisogna avere pazienza», mi spiega un migrante. È quello che si sente ripetere spesso. Bisogna dirlo però, l’accoglienza degli autoctoni è degna di questa parola. Ci sono diversi “punti di appoggio”: dove preparare i curriculum, dove ricevere vestiti gratis, corsi di lingua gratuiti, centri per farsi visitare da un dentista, tagliarsi i capelli, fare la lavatrice al costo di un aperitivo in Italia. Per il resto è tutto caro, il doppio del costo della vita rispetto al paese che ho lasciato.
Per le vie di questa plumbea città del nord d’Europa, i volti sono sereni, il chiacchiericcio è in tante lingue, e sembra che nessuno si senta straniero. Sul totale degli abitanti in questa città, oltre il 40% ha passaporto straniero. Purtroppo di questi, qualche migliaio non ha i documenti in regola. Tutti sanno che esistono e sono impiegati in ambiti diversi, dall’edilizia all’assitenza agli anziani. Hanno pochi diritti ma tante ambizioni. Così è anche per gli ultimi arrivati.
Domenica Canchano
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