Ho sempre sentito il bisogno di non accomodarmi, di non essere mai soddisfatta dei buoni risultati conquistati ma di essere ambiziosa e mettermi in gioco ogni qualvolta me ne viene data l’opportunità. Quando sono partita per il Paese del Gallo, sapevo che avrei dovuto rimboccarmi le maniche e che ricominciare da zero voleva dire affrontare ogni tipo di sorpresa. Questi mesi sono stati durissimi, ma ho sempre avuto, anche nei momenti più difficili, il mio obiettivo all’orizzonte. Sia pure con motivazioni diverse, questo sentire mi accomuna a molte di quelle persone, siano esse migranti economici o rifugiati, che per scelta o costrizione decidono di lasciare il proprio paese.
Io non ho scelto di emigrare pensando solo al paese di destinazione come la mia principale meta, ma a quello che volevo ottenere. Nel Paese del Gallo ci sono capitata un po’ per caso. Mi interessava trovare un posto dove migliorare la mia situazione.
E, come me, questo paese l’hanno scelto due milioni di stranieri, l’80% proviene da un paese europeo. In questi mesi ho parlato il francese, l’inglese, l’italiano, lo spagnolo e il portoghese. Ma non sono l’unica: secondo un’indagine i due terzi della popolazione (64%) utilizza più di una lingua almeno una volta alla settimana, 38 % ne impiega due; 19% tre, e il 7% ne impiega quattro e più.
Ho conosciuto figli di immigrati italiani che mi consigliavano di non frequentare altri italiani; ho conosciuto figli di immigrati peruviani che mi consigliavano di non frequentare peruviani. «Ti sfrutteranno, vedrai», era il loro avvertimento.
Ho letto annunci di lavoro alquanto singolari, come quello in cui ti pagano per fare la lavatrice o per andare in vacanza in barca con una famiglia. Ho visto atti di gentilezza che mi hanno lasciata a bocca aperta, come quando un’autista di un mezzo pubblico in pieno centro città è sceso per fare un biglietto con la macchinetta a una signora anziana.
Ho ascoltato il racconto di immigrati costretti a dormire per mesi in una panchina di una stazione ferroviaria, altri nella propria vettura, o chi in un parco. Ho apprezzato l’altruismo di molti che accolgono incondizionatamente gli immigrati. Altri, invece, preferiscono fare affari con loro, facendo pagare un posto-divano per una notte.
Ho conosciuto storie del passato, come quella del nonno di un nuovo amico: oltre cinquanta anni fa la sua famiglia si era stabilita in una regione protestante e la sua era l’unica famiglia cattolica nel paesino. Erano così odiati che per strada tiravano loro pietre e per avere un lavoro dovevano spostarsi di cantone. Essere cattolici era una delitto.
Questo e molto altro è la Svizzera, che io ho voluto chiamare il Paese del Gallo per un particolare curioso. Ogni mattina che esco da casa guardo sempre il campanile di una chiesa protestante dove sulla punta si trova un gallo di ferro che si gira a seconda del vento. Mi hanno insegnato che è il miglior metereologo del paese. E tutte le mattine sono in molti ad alzare il naso per seguire le sue indicazioni.
Anche questa è la Svizzera, un paese è diviso tra cantoni protestanti e cattolici.
Un momento della conferenza su Maxima Acuña. La Svizzera è il posto ideale per parlare delle conseguenze dell’estrazione dell’oro: qui vengono raffinati i due terzi del minerale del mondo.
In questo paese esistono anche le quattro più importanti raffinerie d’oro al mondo ed è qui che ho avuto l’onore di fare una conferenza su Maxima Acuña, la campesina vincitrice del premio Goldman 2016 che combatte contro la Newmont Mining Co. una grossa multinazionale dell’oro statunitense. L’Associazione culturale italiana nella Broye ha sostenuto il mio progetto e così ho potuto realizzare una conferenza e mostra fotografica nell’ambito del primo Salon du livre de la Broye.
Ho conosciuto persone stupende, una su tutti la presidente del Salone, madame Jeannine Hausammann, la quale è anche direttrice di una piccolissima biblioteca in un villaggio di circa 800 abitanti. Ha deciso di festeggiare il suo trentesimo compleanno con la realizzazione del primo Salone del libro della regione. Coraggiosa. Ed è stata premiata, perché numerosa è stata la partecipazione. E non c’è miglior paese di questo per parlare dell’oro, dei danni ambientali e delle conseguenze – e non solo – legati all’estrazione mineraria. Sebbene qui non ci siano miniere d’oro, si stima che i due terzi delle dell’oro mondiale venga raffinato in questo paese.
E molto di quell’oro arriva direttamente dal Perú, il paese dove sono nata e dove è nata anche Maxima Acuña. Da cinque anni, la campesina analfabeta di 46 anni, si batte per non essere sfrattata dal suo terreno di circa 25 ettari, comprato nel 1994, accusata dalla multinazionale di essersene appropriata illegalmente. Sotto i suoi piedi, nelle montagne e nella laguna che lei affettuosamente vigila, c’è il metallo più ambito da molti uomini, l’oro. La multinazionale l’aveva denunciata, ma un tribunale della città di Cajamarca l’anno scorso le ha dato ragione. Ciò nonostante, subisce minacce, aggressioni fisiche e psicologiche e vive come in un carcere a cielo aperto.
Sono fiera di averla conosciuta e di aver portato la sua storia, la sua battaglia per i diritti suoi e della sua comunità, anche qui, nel paese dell’oro.
Domenica Canchano
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