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La lotta delle pentole

Ha avuto inizio con la chiusura delle cucine la protesta delle famiglie rom del centro accoglienza di via Salaria. Una battaglia per il rispetto e la dignità che ha per protagoniste le donne

Di Maria Rosaria Chirico

La lotta delle pentole. Potremmo soprannominare così la protesta che vede coinvolte le numerose donne ospiti di una struttura d’accoglienza sita in via Salaria, nella periferia nord di Roma, ex fabbrica un tempo utilizzata per fare la carta.

A partire dal 2009, quando il grande campo del Casilino ‘900 viene sgomberato, questo fabbricato fatiscente, pur non possedendo i requisiti di abitabilità, si è trasformato in centro di accoglienza per famiglie di cultura romanì, sgomberate nel corso degli anni. La gestione interna è affidata al consorzio Casa della Solidarietà, commissariata per i fatti su mafia capitale.

Come vivere in un armadio

L’interno della struttura, privo di soffitti, non lascia spazio alla privacy. ©M.R.Chirico

Attualmente, vengono ospitate 385 persone di nazionalità romena e bosniaca, di cui più della metà sono minori. Le condizioni di vita all’interno di questa struttura sono molto dure. Relegati ai margini della società, in una realtà fortemente costrittiva i diritti umani vengono sistematicamente violati. Pur non trattandosi di un luogo di detenzione, se non si è muniti di autorizzazione, è difficilissimo entrare. La struttura è blindata. A vigilare, giorno e notte, vi sono agenti privati pagati dal Comune. A tal proposito, monsignor, Paolo Lojiudice, vescovo di Roma, recatosi varie volte presso il centro di accoglienza, afferma: «Ciò che accade là dentro, non lo sapremo mai. Quello che vediamo è soltanto la punta di un iceberg».

Gli spazi comunitari, sono in stato di evidente degrado. Un vero abbandono istituzionale che costringe intere famiglie a vivere nel disagio: «tra sporcizia, blatte, cimici, come animali», raccontano gli ospiti. I servizi igienici, insufficienti per i bisogni di così tante persone, costituiscono un costante fattore di rischio per la salute: i water sono perennemente otturati, i rubinetti dei sanitari sono rotti, con perdite che allagano tutti gli ambienti, la caldaia dell’acqua calda non funziona da troppo tempo. In questo luogo triste e dispersivo le persone abitano in piccole “stanze”, ricavati all’interno di una grande camerata, con pannelli di legno poggiati su piedini di metallo.

«È come aver vissuto in un armadio», questa è l’espressione usata da una ragazza transitata nel centro di via Salaria, mentre raccontava a un operatore sociale quella sua triste esperienza, «Sì, in un armadio – replica Ernesto Rossi, presidente delle associazioni Aven Amentza e Apertamente di Buccinasco – lontana dagli sguardi di chiunque, chiusa e prigioniera. E senza luce. Mi viene in mente – continua – l’armadio della vergogna, in cui rimase per anni rinchiusa e ignorata la documentazione di molti dei crimini avvenuti nell’ultima Guerra Mondiale. Un armadio con le porte rivolte contro il muro. Così è successo e continua ad accadere per tanti crimini non conosciuti, non denunciati e non riconosciuti, che riguardano la vita di donne, bambini, uomini rom».

In questi spazi esigui, di circa tre metri quadrati “vivono” sino a un massimo di cinque persone.  Allo scopo di fare entrare la luce sono stati realizzati senza soffitto, per cui non c’è movimento o respiro che le persone che abitano accanto, o siano di passaggio, non possano chiaramente sentire o immaginare. Disposti uno accanto all’altro, non lasciano spazio alla privacy e a nessun altra forma di intimità. Cosicché, intere famiglie, adulti e bambini, convivono in uno stato di promiscuità. Una promiscuità istituzionalizzata. La stessa promiscuità per cui, molto spesso, tanti bambini poveri, tanti bambini rom vengono tolti ai loro genitori e dati in affidamento*.

Con l’arrivo delle ultime famiglie, provenienti dall’insediamento  di via della Cesarina e dal Best House Rom, recentemente chiusi, la convivenza forzata di diversi gruppi e nazionalità ha ulteriormente compromesso i precari equilibri preesistenti  dando vita a tensioni e a rapporti comunitari conflittuali acuiti da un indice di affollamento elevato e dall’insufficienza dei servizi.

Oltre la metà degli ospiti del centro sono minori. ©M.R.Chirico

Del tutto inesistenti i percorsi di inclusione sociale e lavorativa, così come anche quelli  previsti per il sostegno alla scolarizzazione. Il contesto abitativo e la mancanza di reti sociali, incidono pesantemente sulla qualità della vita dei minori e contribuiscono in modo significativo ad un processo di emarginazione, del quale il disadattamento e la dispersione scolastica costituiscono tappe fondamentali che ostacolano il raggiungimento dell’autonomia economica, culturale, sociale.

In questo posto dignità e diritti di ciascuna persona vengono sistematicamente mortificati, riducendo le persone in soggetti sociali assistiti, da gestire, a seconda della convenienza politica e di “mercato”. Non a caso il Centro di accoglienza, così come altre presenti in città, si chiama “Centro di raccolta Rom”. Quasi si trattasse di una raccolta di prodotti da “lavorare” e non di persone titolari di dignità e di diritti di cittadinanza, con una propria storia ed una soggettività.

La protesta delle pentole

Protagoniste assolute della protesta delle pentole le donne rom ospiti del centro. ©M.R.Chirico

Ad aggravare la situazione, lo scorso febbraio, il Comune di Roma, vieta l’uso delle cucine, dei frigoriferi e la preparazione dei pasti imponendo un pasto serale precotto. Inizia così quella che ci è piaciuto chiamare “la protesta delle pentole”, una lotta femminile delle donne del centro, alla quale mi sono unita attivamente sin dal primo momento, per rivendicare la libertà ed il diritto ad alimentarsi  secondo i propri gusti necessità e tradizioni. Per dire no ai pasti precotti. Per rivendicare il piacere di fare la spesa e condividere il cibo preparato per i propri cari, unico privilegio in una realtà già tanto triste e poco dignitosa. Con la loro lotta le famiglie rifiutano il pasto gratis ed esigono “rispetto e dignità”.  Per la prima volta, le romnià sono le promotrici e le protagoniste assolute di questa pacifica quanto singolare protesta, portata avanti sino ad oggi con la creatività di cui soltanto le donne sono capaci. Una lotta invisibile e solitaria a suon di pentole e posate, ritmata da canti e danze tradizionali, con la speranza che qualcuno si accorgesse di loro. Un’iniziativa mai intrapresa prima e doppiamente coraggiosa, in una realtà culturale fortemente maschilista e all’interno di una struttura segregante e coercitiva in cui non sono permesse forme di dissenso o di ribellione e l’osservanza delle regole, seppure inique, discriminanti e discrezionali, è la condizione per non essere mandati via.

A promuovere la protesta una romnì romena, Eva Maruntel, mediatrice culturale che da anni lavora all’interno della struttura.

Ma dopo il ritiro di cucine e frigoriferi a portare sgomento e preoccupazione nel centro di accoglienza arriva un’altra cattiva notizia: il 9 marzo, il dipartimento alle Politiche sociali di Roma Capitale, notifica a 35 famiglie l’ordine di andare via, entro il 28 marzo 2016, senza proporre un’alternativa abitativa alla strada, così come previsto dalla Strategia d’inclusione sociale. Dopo varie riunioni la comunità decide di manifestare il proprio dissenso con un protesta sotto il comune fissata per il 14 marzo, il lunedì successivo. È stata una lotta contro il tempo, anche perché  era un venerdì  e in soli due giorni è stato necessario informare, comunicare,  lanciare appelli e contattare associazioni ed istituzioni per poter raccogliere adesioni. Scopo della manifestazione aprire un dialogo con il dipartimento, finalizzato a cercare soluzioni alternative alla strada ma anche ad abbattere il muro dell’indifferenza ed uscire dalla condizione di invisibilità che sino ad allora aveva caratterizzato quella lotta iniziata già un mese fa.

La manifestazione del 14 marzo ha visto la partecipazione di intere famiglie. ©M.R.Chirico

La mattina del 14 marzo siamo in tanti a ritrovarci fuori dal dipartimento. Accanto alla comunità tanta gente comune, l’assessore alle Politiche sociali Eleonora Di Maggio, del terzo municipio e tante personalità arrivate a portare sostegno e solidarietà. La maggior parte dei manifestanti erano donne, tantissime romnià. Arrivavano piano, piano a gruppetti di quattro, cinque persone, con i loro mariti, da sole o con i loro bambini. In carrozzina, c’era anche  Maria, una signora disabile gravemente ammalta.  Poco più in là, appartate, il fazzoletto nero in testa, silenziose, il volto mesto segnato dal dolore  le romnià  di Kalarash. Nonostante fossero in lutto, non sono volute mancare. Altre, hanno il volto coperto con le mani per paura. Anche in questa occasione sono loro, le donne dell’ex cartiera, le protagoniste assolute. Le stesse che, da più di un mese, portano avanti, in solitudine, una lotta coraggiosa.

Durante l’attesa i volti erano tesi, preoccupati, non sapevamo ancora se ci avrebbero ricevuto o meno. Finalmente, dopo qualche ora concedono ad Eva di entrare. È la prima volta che una donna assume un ruolo così importante e significativo nel rappresentare la comunità presso le istituzioni. Mentre si avvia a salire i primi gradini c’ è un’ovazione di applausi. Quelli che seguono sono momenti di speranza e conversazione più leggera. Più tardi, proprio in questa circostanza, quando l’incontro sarà finito, è Eva Murentel, a comunicare a tutti noi che il centro di accoglienza sarà definitivamente chiuso entro il mese di giugno, senza prospettare soluzioni abitative alternative alla strada, così come previsto dalla normativa europea e dalla Strategia d’inclusione sociale.

Ad oggi, il dialogo con le istituzioni continua così come anche la lotta delle famiglie dell’ex cartiera. Una lotta per dare anche dignità e riconoscimento all’identità e alla condizione della popolazione romanì, profondamente convinti che più vie sono percorribili e accettando che alcune di esse non saranno necessariamente quelle solite e che tutti gli attori di questo percorso lungo e dispendioso si dispongano attorno ad un progetto globale e articolato costruendo sinergie oneste e rispettose. Ma più di tutto si vuole affermare che essere “rom” non debba più essere avvertito come un marchio sulla pelle. Che la convivenza civile si faccia portatrice di una nuova coscienza capace di promuovere il protagonismo e l’autodeterminazione di un popolo capace di vantare  storia, cultura e tradizioni antiche.

*“Una migrazione silenziosa. Rom bulgari in Italia”, Maria Rosaria Chirico, aprile 2015.

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