“Fondamentale il dialogo con cittadini e lettori”. Anna Masera racconta il suo lavoro come public editor de La Stampa
“Aiutateci a essere migliori. E se vorrete essere parte della squadra, daremo spazio anche alla vostra voce migliore”. Così Anna Masera a inizio anno presentava la funzione del suo nuovo ruolo, quello di public editor, o garante dei lettori, attraverso le pagine de La Stampa.
Il quotidiano torinese è stato la prima testata italiana a sperimentare questa figura – già molto diffusa nella stampa anglosassone – che ha il compito di raccogliere opinioni, suggerimenti, critiche e correzioni da parte dei lettori, con il duplice obiettivo di ascoltarli, dando seguito alle loro richieste quando opportuno, e di stimolare la comunità.
“È importante che un direttore, un giornale, abbia una posizione: l’obiettività sta nella trasparenza”. Intervista ad Anna Masera
Dopo due anni trascorsi come responsabile della comunicazione alla Camera dei Deputati, dove ha lavorato sull’apertura al pubblico e sulla trasparenza, Anna Masera, giornalista – da quest’anno dirige il Master in Giornalismo di Torino, ha proposto a La Stampa di introdurre la figura del public editor. Sfida che è stata accolta in un primo momento da Mario Calabresi – allora direttore – e successivamente da Maurizio Molinari e Massimo Russo, rispettivamente direttore e condirettore: «È assolutamente necessario avere un dialogo con cittadini e lettori – spiega ad Associazione Carta di Roma Anna Masera – Facciamo informazione per un pubblico, quindi è importante sapere a chi ci si rivolge, assicurarci che il servizio sia gradito, ascoltando esigenze e critiche. Il giornale online, di fatto, è gratis, sostenuto solo dalle pubblicità: se vogliamo che il sito piaccia e sia frequentato e possa di conseguenza sostenersi, deve avere una comunità forte. È un po’ come un ufficio reclami: ci vuole una persona che si metta lì, a raccogliere richieste e sollecitazioni».
Come è stata recepita la figura del public editor?
«Dai lettori molto bene, hanno capito che vi è qualcuno dall’altra parte che li ascolta. Se da un lato c’è una rubrica settimanale cartacea (e online), con una sua esistenza fissa, dall’altro vi è l’attività costante di risposta. Non tutti si rivolgono a me con intento critico, vi è anche chi avanza richieste di servizio. Ricevo segnalazioni di errori via email, via social e anche per posta, così come richieste di spiegazioni. Riporto tutto ai giornalisti, facendo da tramite. Rispondo a tutti singolarmente e scelgo personalmente i temi della rubrica, attenta a non farmi condizionare.
È un lavoro collettivo, fatto insieme ai lettori.
Non sempre piace molto, invece, ai colleghi: non tutti amano avere un grillo parlante che ti suggerisce di chiedere scusa, spiegare, chiarire. A noi giornalisti capita di sbagliare, a volte per fretta, altre per l’eccessiva semplificazione, così come per molte altre ragioni: l’importante è saper rimediare, reagire con trasparenza e spirito di servizio. Il lettore deve sapere che ciò che era sbagliato è stato corretto».
La deontologia che ruolo svolge per il public editor?
«Avere un codice deontologico è fondamentale. Per me è un punto di riferimento, mi aiuta a capire dove sbagliamo, mi indica cosa è corretto e cosa non lo è. Vi ricorro anche per cercare di prevenire sbagli e polemiche, sollevando obiezioni magari fin dal concepimento di un articolo. Mi capita di essere considerata una “moralista” per questo, perché mi schiero contro il sessismo e il razzismo, ma alla fine tutti i colleghi sanno che è un tema importante».
Vi sono temi verso i quali i lettori si sono dimostrati finora particolarmente sensibili?
«Non sopportano i refusi e hanno ragione. Poi ci sono i temi “politicamente corretti”.
Di recente, per esempio, abbiamo pubblicato un’inchiesta sul linguaggio, intervistando Monica Maggioni, poiché avevamo ricevuto molte lamentele sul linguaggio sessista diffuso tra i media, a livello generale.
Sul tema dell’immigrazione, invece, devo dire che mi aspettavo molta più partecipazione. Sui social sono contattata da lettori molto attenti, che di tanto in tanto ci bacchettano. Rappresentano, però, una minoranza. Vi è sicuramente un mix di vedute tra i nostri lettori, probabilmente molti di loro, quelli che non intervengono su questo tema, rappresentano quegli italiani che sono spaventati dall’attuale situazione. I giornali rappresentano la società per cui scrivono: i lettori non costituiscono una massa informe, sono molto variegati e non sempre quelli più rumorosi sono la maggioranza, anzi».
Qual è la difficoltà più grande incontrata finora nello svolgere la funzione di public editor?
«Non sempre i colleghi sono contenti del mio ruolo, sono ufficialmente incaricata di fare la rompiscatole. Il public editor nelle testate anglosassoni è una figura del tutto indipendente dalla redazione, che deve render conto solo all’editore; nel mio caso invece il mio referente è il direttore. In Italia mi sembra difficile che possa essere altrimenti. Per fortuna con il direttore ho un dialogo molto aperto e troviamo sempre risposte stimolanti ai problemi che sollevano i lettori. Il direttore della Stampa attuale, Maurizio Molinari, ha una linea editoriale diversa rispetto a quella di Mario Calabresi, ma apprezzo da parte di entrambi la loro disponibilità al confronto e la loro passione per questo mestiere. Credo sia importante che un direttore, un giornale, abbia una posizione. Nessuno è interessato a un giornale che non ne ha una. L’obiettività sta nella trasparenza, che per me è un aspetto fondamentale. Quindi un punto di vista può essere messo in discussione: quando, per esempio, i lettori non lo condividono e lo segnalano, cerco un confronto col direttore, per poter spiegare quella linea editoriale.
Esistono, infatti, approcci diversi verso alcuni temi sensibili e non ve n’è uno giusto o uno sbagliato. Quando ci troviamo di fronte a una tragedia dobbiamo mostrare o meno il dolore? Secondo alcuni è necessario vedere, per smuovere le coscienze, per altri, invece, deve avere il sopravvento la pietas. Non vi è una risposta corretta. La mia – personale – è, per esempio, che bisogna trovare una posizione nel mezzo: un giornalismo troppo emotivo rischia di essere respingente, mentre un giornalismo di analisi può aiutare a capire meglio. Attraverso il mio lavoro cerco di raccontare ai lettori proprio questo tipo di dibattito interno alle redazioni, per aiutarli a capire la cucina dei giornali e a conoscerci. Siamo umani come loro, e cerchiamo di rendere loro un servizio di informazione che speriamo sia loro utile».
È singolare che, mentre si sperimenta una certa diffidenza di lettori e utenti verso le testate giornalistiche, informazioni e tesi provenienti da fonti molto meno attendibili vengono credute con estrema facilità da molti.
«Se i giornali vogliono avere un ruolo educativo devono dimostrare sul campo di essere più autorevoli, dimostrando di saperla più lunga. Le bufale vanno dimostrate in quanto tali. Bisogna recuperare la capacità di verifica delle notizie e fare per esempio il cosiddetto “fact-checking” per riportare i fatti separati dalle opinioni. Che poi sono le regole del buon giornalismo: ma la reputazione di un giornale è fatta dalle firme dei singoli, che a loro volta hanno una reputazione da mantenere, di onestà intellettuale prima di tutto, ma anche di bravura sul campo. Con l’overload di informazione di cui il pubblico è bombardato, è importante che un giornale sappia offrire selezione, analisi, approfondimento. Non so quanto sia necessario fare story-telling: la narrazione c’è ovunque, meglio selezionarne poca ma buona e per il resto aiutare i lettori a ricordare e a sapere che cosa succede, tenendo in mente che i lettori hanno il diritto di non sapere, di non ricordare e di non capire».