Sabato uscivamo con un editoriale denunciando l’uso improprio del termine “clandestino” all’interno del Memorandum d’intesa Italia-Libia. Quel testo, trasformato in un appello indirizzato ai presidenti di Senato, Camera e Consiglio dei ministri e firmato da Ermanno Olmi, Luigi Manconi, Nicola Lagioia, Alessandro Bergonzoni, Giovanni Maria Bellu, Beppe Giulietti, veniva pubblicato da Repubblica ieri. Stamattina il quotidiano riporta la replica della presidente della Camera Laura Boldrini:
Il vostro testo richiama la Carta di Roma, cioè il protocollo varato nel 2008 per un’informazione rispettosa dei diritti di richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. Per mettetemi di ricordare, non senza un certo orgoglio, che di quel teste sono stata a suo tempo una delle artefici. Qualche anno dopo, e nel prestigioso incarico che ho l’onore di ricoprire, non ho cambiato idea sulla necessità di usare le parole in modo corretto e tale da non alimentare, nemmeno inconsapevolmente, pregiudizi e ostilità.
Al presidente del Consiglio dei ministri Alla presidente della Camera Al presidente del Senato Nel “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere” sottoscritto dall’Italia e dal Governo di riconciliazione libico compare più volte – come sinonimo di migrante non regolare – il termine “clandestino”. Qui intendiamo sorvolare sui molti punti di quell’intesa che ci lasciano perplessi, per concentrarci in primo luogo sul suo linguaggio. Se, come ci auguriamo, il ricorso al termine “clandestino” è il frutto di una distrazione, è una distrazione grave. Sono passati poco più di due anni da quando, su richiesta della commissione per la tutela dei Diritti umani del Senato, il termine “clandestino” è stato cancellato da molti degli atti ufficiali prodotti dalle autorità italiane e anche dal sito del Ministero dell’Interno dove, fino al dicembre del 2014, continuava a comparire. Il termine “clandestino” è, in primo luogo, giuridicamente infondato quando viene utilizzato per indicare – anche prima che abbiano potuto presentare domanda d’asilo e che la domanda sia stata valutata dalle apposite commissioni territoriali – i migranti che tentano di raggiungere, o raggiungono, il territorio dell’Unione Europea. Si tratta, inoltre, di un termine che contiene un giudizio negativo aprioristico – suggerendo l’idea che il migrante agisca al buio, nascondendosi alla luce del sole, come un malfattore – ed è contraddetto dalla realtà dei fatti. Gli immigrati, anche quelli non regolari, non si nascondono al sole. Al contrario, spesso lavorano sotto il sole, dall’alba al tramonto, nei campi e nei cantieri. L’Associazione Carta di Roma – dal 2011 impegnata nel tentativo di far rispettare il codice deontologico che i giornalisti italiani si sono dati in relazione ai servizi dedicati a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti – illustra costantemente questo concetto elementare in tutte le sue attività di formazione. Con un certo successo, considerato che – come rilevato anche nell’ultimo rapporto su immigrazione e media – l’uso improprio della parola clandestino va diminuendo. E sempre più spesso l’utilizzo di questo termine non è frutto di distrazione o di disinformazione, ma della volontà di affermare un’idea aprioristicamente negativa, e xenofoba, dell’immigrazione. Il ricorso reiterato del termine, proprio in ragione dell’uso diffusosi nella recente storia italiana, finisce inequivocabilmente col suggerire un’immagine dell’immigrato come nemico. Un’insidia per la nostra società, per l’incolumità dei cittadini e per la sicurezza dei loro beni. Di conseguenza, nel testo dell’intesa tra il governo italiano e il governo libico si accredita – al di là delle intenzioni di quanti l’hanno redatto e sottoscritto – l’idea che gli immigrati non siano persone titolari di diritti, bensì una minaccia sociale da combattere. La parola “clandestino” è uno dei lemmi dell’hate speech, il discorso d’odio. L’articolo 7 del Memorandum dell’intesa tra Italia e Libia prevede che il testo dell’accordo possa essere “modificato a richiesta di una delle Parti, con uno scambio di note, durante il periodo della sua validità”. Si tratta di una procedura semplice, che può e deve essere immediatamente attivata. Quella parola va cancellata subito.
Al presidente del Consiglio dei ministri
Alla presidente della Camera
Al presidente del Senato
Nel “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere” sottoscritto dall’Italia e dal Governo di riconciliazione libico compare più volte – come sinonimo di migrante non regolare – il termine “clandestino”.
Qui intendiamo sorvolare sui molti punti di quell’intesa che ci lasciano perplessi, per concentrarci in primo luogo sul suo linguaggio. Se, come ci auguriamo, il ricorso al termine “clandestino” è il frutto di una distrazione, è una distrazione grave. Sono passati poco più di due anni da quando, su richiesta della commissione per la tutela dei Diritti umani del Senato, il termine “clandestino” è stato cancellato da molti degli atti ufficiali prodotti dalle autorità italiane e anche dal sito del Ministero dell’Interno dove, fino al dicembre del 2014, continuava a comparire.
Il termine “clandestino” è, in primo luogo, giuridicamente infondato quando viene utilizzato per indicare – anche prima che abbiano potuto presentare domanda d’asilo e che la domanda sia stata valutata dalle apposite commissioni territoriali – i migranti che tentano di raggiungere, o raggiungono, il territorio dell’Unione Europea.
Si tratta, inoltre, di un termine che contiene un giudizio negativo aprioristico – suggerendo l’idea che il migrante agisca al buio, nascondendosi alla luce del sole, come un malfattore – ed è contraddetto dalla realtà dei fatti. Gli immigrati, anche quelli non regolari, non si nascondono al sole. Al contrario, spesso lavorano sotto il sole, dall’alba al tramonto, nei campi e nei cantieri.
L’Associazione Carta di Roma – dal 2011 impegnata nel tentativo di far rispettare il codice deontologico che i giornalisti italiani si sono dati in relazione ai servizi dedicati a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti – illustra costantemente questo concetto elementare in tutte le sue attività di formazione. Con un certo successo, considerato che – come rilevato anche nell’ultimo rapporto su immigrazione e media – l’uso improprio della parola clandestino va diminuendo. E sempre più spesso l’utilizzo di questo termine non è frutto di distrazione o di disinformazione, ma della volontà di affermare un’idea aprioristicamente negativa, e xenofoba, dell’immigrazione.
Il ricorso reiterato del termine, proprio in ragione dell’uso diffusosi nella recente storia italiana, finisce inequivocabilmente col suggerire un’immagine dell’immigrato come nemico. Un’insidia per la nostra società, per l’incolumità dei cittadini e per la sicurezza dei loro beni. Di conseguenza, nel testo dell’intesa tra il governo italiano e il governo libico si accredita – al di là delle intenzioni di quanti l’hanno redatto e sottoscritto – l’idea che gli immigrati non siano persone titolari di diritti, bensì una minaccia sociale da combattere. La parola “clandestino” è uno dei lemmi dell’hate speech, il discorso d’odio.
L’articolo 7 del Memorandum dell’intesa tra Italia e Libia prevede che il testo dell’accordo possa essere “modificato a richiesta di una delle Parti, con uno scambio di note, durante il periodo della sua validità”. Si tratta di una procedura semplice, che può e deve essere immediatamente attivata. Quella parola va cancellata subito.
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