“Importante individuare i criteri che portano a collocare una dichiarazione nell’ambito del discorso d’odio”. L’intervento di Giovanni Maria Bellu all’apertura dei lavori della commissione di studio su intolleranza, razzismo, xenofobia e discorsi d’odio
Il discorso di Giovanni Maria Bellu, presidente di Carta di Roma, all’avvio dei lavori della commissione di studio parlamentare sui fenomeni d’odio, presieduta dalla presidente della Camera Laura Bordini.
Ringrazio la presidente Boldrini per aver invitato l’Associazione Carta di Roma a questa commissione che ha il compito di studiare l’odio, l’intolleranza e la xenofobia, cioè alcune delle criticità più rilevanti della convivenza civile contemporanea e dunque anche della comunicazione. Sia della comunicazione tra i cittadini, sia della comunicazione politica, sia della comunicazione mediatica. Credo doveroso in questo primo incontro presentarci per chiarire qual è il nostro punto di osservazione e quale potrà essere il nostro contributo.
L’Associazione Carta di Roma è il luogo dove i professionisti dell’informazione incontrano i professionisti dei diritti umani. Cioè il luogo dove quanti più spesso di tutti s’imbattono nel discorso d’odio incontrano quelli che ne rappresentano i soggetti che ne sono più spesso le vittime. Meno scontate e meno intuitive sono le ragioni per cui è interesse dei giornalisti, di tutti i giornalisti, rimuovere il discorso d’odio. Indipendentemente dal loro orientamento politico, religioso, culturale, etico. Rimuovere il discorso d’odio è infatti, per i giornalisti, in primo luogo un’esigenza professionale. E con questo credo di aver sintetizzato l’aspetto fondamentale del nostro contributo.
Il mondo dell’informazione vive una fase estremamente complessa se non drammatica: una rivoluzione tecnologica e industriale in una fase di recessione. Una combinazione micidiale. Le nuove tecnologie hanno enormemente accresciuto il valore della velocità con cui si dà una notizia, la crisi industriale ha determinato e determina una riduzione del personale. Si ha meno tempo di prima per valutare le notizie e si è in meno a compiere questa operazione. Si è più esposti agli errori e anche alla tentazione di assecondarli magari per lucrare maggiori ascolti, maggiori contatti, maggiori risorse.
Ma in cosa consiste l’operazione preliminare che un giornalista compie tutte le volte che tenta di restituire la verità sostanziale di un fatto? In estrema sintesi possiamo dire che un giornalista, sia nel momento in cui stabilisce che un certo evento è una notizia, sia quando lo riferisce, deve prefigurarsi cosa i suoi lettori o ascoltatori “già sanno” e cosa invece “non sanno”. In questo “sapere già” o “non sapere” non c’è solo l’evento. Mi spiego: se do la notizia di un omicidio, in primo luogo devo essere certo che quella sia una novità, cioè che il fatto non sia già noto. Ma, stabilito questo, nel dare la notizia, do per scontato che i miei lettori o i miei ascoltatori “sanno già” che l’omicidio un atto inaccettabile. Infatti nel titolo scrivo “ucciso” sapendo bene che nessuno dei miei lettori avrà bisogno di sentirsi spiegare che l’omicidio è una cosa brutta. Perché la società nel suo insieme condanna l’omicidio.
Se prendiamo alcuni esempi del discorso d’odio, scopriamo che negano questo presupposto. Per esempio, può capitare che in una rissa tra due immigrati, uno dei due perda la vita, e che qualcuno commenti: “Bene, uno in meno”. O che muoiano decine di persone in un naufragio, e che qualcuno sottolinei con soddisfazione i minori costi che questo evento determinerà sul sistema d’accoglienza.
Credo che uno dei primi compiti di questo nostro gruppo di lavoro sarà individuare i criteri che portano a collocare una dichiarazione, un commento, uno scritto nell’ambito del discorso d’odio. Tracciando un confine netto e facilmente individuabile tra il discorso d’odio – che è inammissibile – e opinioni che rientrano nella libertà di manifestazione del pensiero, che vanno al contrario difese e garantite. È un discorso complesso e non voglio anticiparlo. Ma, solo per chiarire il nostro punto di vista, credo di poter dire che l’agente del discorso d’odio presuppone l’esistenza di ascoltatori che non condividono, o non conoscono, valori unanimemente condivisi. O che non prendono in considerazione, o deliberatamente ignorano, una serie di fondamentali acquisizione scientifiche o storiche. Così fondamentali e così condivise da essere state recepite nella Costituzione e nei trattati internazionali. Se io faccio un’affermazione generalizzante che a partire da un fatto singolo condanna un intero gruppo sociale, una intera comunità, sto evidentemente dando per scontato che esiste una parte dei miei interlocutori (lettori, ascoltatori) che non sa che non esistono le razze e che i comportamenti delle persone sono per larga parte determinati dall’educazione, dalla formazione, dalle loro condizioni materiali.
Intendo dire che, dal punto di vista della comunicazione giornalistica, cioè del capire, da parte del giornalista, quello che il suo lettore o ascoltatore “sa già”, il discorso d’odio crea una complicazione, un rallentamento. Se ogni volta che do la notizia di un omicidio devo spiegare che l’omicidio è una cosa brutta, perdo un sacco di tempo. Il discorso d’odio ci obbliga a ricominciare ogni discorso da capo, ricostruendone i presupposti. Fa perdere tempo e anche denaro. Per chi fa il mestiere d’informare, il discorso d’odio prima ancora che odioso è oneroso.
Da questo punto di vista credo che il nostro interesse professionale possa coincidere con l’interesse generale. Perché così come un articolo diventa noiosissimo se mentre scrivo devo sostanzialmente spiegare e ridefinire le parole che uso, il discorso pubblico si paralizza, non fa un passo avanti, se tutte le volte deve ricominciare da capo.