Di Alessandro Lanni (@alessandrolanni)
“Ingestibile”, “ingovernabile”, “epocale”. Così il flusso dei rifugiati continua a essere rappresentato in sede europea. Spesso i dati non sufficientemente analizzati e contestualizzati sono piegati alla propaganda politica. Ma imparando a leggere i rapporti trimestrali di Eurostat si vede che le cose non stanno proprio così.
Quasi la metà in un anno. Il numero dei richiedenti asilo nell’Ue è calato del 47%, passando dagli oltre 300mila del primo trimestre 2016 ai 164.555 dei primi 3 mesi del 2017. Un dato che va contestualizzato, d’accordo, ma che comunque colpisce. I grandi stati europei hanno alzato le loro barriere, e ora provano a “esternalizzare” la gestione del flusso dei rifugiati. Gli effetti dell’accordo tra Bruxelles e Istanbul, quello firmato da Erdogan, ha interrotto il flusso di rifugiati provenienti da Iraq, Afghanistan e soprattutto Siria creando di fatto un tappo sul suolo turco pagato profumatamente dall’Ue. In Libia si proverà a fare qualcosa di simile.
Eppure, i dati Eurostat dicono anche altro. Per esempio che al netto della retorica dell’invasione il problema più urgente da affrontare dovrebbe essere la distribuzione più equa dei richiedenti asilo tra i vari paesi membri. Lo sappiamo, c’era il programma di relocation varato quasi due anni fa, mai accettato da molti paesi e di fatto naufragato senza essere mai davvero entrato in funzione.
Dicevamo dei nuovi dati. A guardare l’ultimo rapporto dell’agenzia statistica europea emerge qualche indicazione importante per comprendere meglio una situazione, certo, in continuo cambiamento ma nella quale inizia a cristallizzarsi quella che ora si presenta come una frattura sempre più netta tra due metà dell’Unione Europea.
Da una parte i paesi che tradizionalmente sono stati le destinazioni ultime di flussi di rifugiati e migranti, dall’altra Italia e Grecia, sponde meridionali del Mediterraneo che in questi anni sono divenute il primo approdo per i profughi. E ormai sempre più unici porti dove chiedere asilo.
La questione dunque non è solo e non è tanto che in Italia il numero degli arrivi e delle domande d’asilo negli ultimi mesi è cresciuto di qualche migliaio rispetto al 2016. Quanto piuttosto che il trend sulle domande d’asilo ha segno opposto rispetto al resto d’Europa. La chiusura di alcune frontiere mitteleuropee, l’accordo con la Turchia di Erdogan per il blocco delle traversate nell’Egeo e la conseguente interruzione della cosiddetta rotta Balcanica hanno determinato uno stop particolarmente evidente nei paesi del nord Europa.
In primo luogo la Germania che tra il 2015 e il 2016 aveva accolto varie centinaia di migliaia di profughi dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan e che in un anno ha visto calare del 75% le domande di protezione. Discorso analogo vale per la Svezia (-43%), la Svizzera (-45%), l’Austria (-72%). Un crollo (-84%) anche in Ungheria che nell’autunno 2015 da paese di transito era divenuto per alcuni rifugiati paese dove presentare domanda d’asilo.
Sul versante opposto Italia (+66%) e Grecia (+219%) – e Francia (+19%) – rappresentano l’unica frontiera e gli unici paesi dove crescono le richieste d’asilo.
Preso atto di questo cambiamento dei flussi e della distribuzione degli arrivi, c’è da chiedersi se sia ancora applicabile il regolamento di Dublino, che prevede che l’esame delle domande d’asilo sia a carico del primo paese d’ingresso.
«Il Governo italiano ha ottime ragioni per intervenire anche con durezza presso le istituzioni della Ue chiedendo un immediato cambiamento nelle politiche europee basate sulla condivisione delle responsabilità e sulla suddivisione degli oneri dell’accoglienza dei rifugiati tra paesi di primo arrivo, come l’Italia e paesi europei senza confini esterni» dichiarava qualche giorno fa l’Asgi. In altre parole, esistono ormai condizioni oggettive per mettere mano al regolamento di Dublino lasciando le ossessioni sui blocchi navali e portando davvero a casa un accordo reale che restituisca senso all’espressione “solidarietà europea”.
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