“Ritenere la vignetta ‘Séisme à l’italienne’ avulsa di razzismo significa ignorare la storia”
Da Giovanni Picker, ricercatore alla Scuola di Politiche Sociali dell’Università di Birmingham, in Inghilterra, e coordinatore per l’Europa Orientale e la Russia della Summer School on Black Europe, riceviamo e volentieri pubblichiamo “Eravamo Charlie? Capire meglio (perché non capiamo) il razzismo.
Eravamo Charlie? Capire meglio (perché non capiamo) il razzismo
È solo dopo la Shoah che la satira antisemita è diventata unanimamente inaccettabile.
Ritenere la vignetta “Séisme à l’italienne” avulsa di razzismo significa ignorare la storia. La storia dei “mangia-spaghetti” o “mangia-maccheroni”, anzitutto, e in generale del longevo pregiudizio antiitaliano – e farlo pensando che, in fondo, la vignetta è una provocazione, ma in quel pregiudizio qualcosa di vero, anche se poco, c’è. Proprio come molti pensavano e pensano del pregiudizio antisemita, anche se non si vedono più (molte) vignette antisemite in Europa. Si dirà che non c’entra, che il paragone è forzato, che Charlie è Charlie. C’è una forzatura, sì, ma c’è anche un dato: se all’indomani della Seconda Guerra Mondiale il silenzio sull’antisemitismo in Europa è stato spezzato (non abbastanza), sul razzismo tout court il silenzio è ancora assordante.
Silenzio: in Europa non esistono né politiche culturali organiche né efficaci legislazioni mirate a conoscere e combattere il razzismo. La storia del razzismo non antisemita (con molte sfumature e intersezioni, ma semplifichiamo per mancanza di spazio) può essere definita la storia di un bisogno. Il bisogno, indotto dall’economia politica classica fondata sull’espansione coloniale europea e dalla coeva nascita dello stato-nazione, di imporre disuguaglianze tra europei e colonizzati sulla base di caratteristiche dei non-europei, ritenute intrinseche dai colonizzatori europei (maschile voluto). Un bisogno fondamentale, quindi, per il funzionamento del mercato e dello stato moderni in Europa, che nel corso dei secoli si è riprodotto, su scale e con effetti diversi, anche all’interno del continente – contro quelli del “sud” e contro quelli dell’“est”.
Ora, chi a scuola studia (davvero) i soprusi dei conquistadores, l’Apartheid in Sud Africa, i quattro secoli di tratta di persone schiavizzate e il massacro degli herero? Chi legge, guarda in tv, o sente alla radio questioni relative a queste storie, i cui artefici erano sempre e solo europei (ancora maschile voluto)? Chi ha fatto una tesina sulla storia di “mangia-maccheroni”? Alcune persone, forse, a volte, ma certamente poche. Il razzismo che in molti studiamo e riusciamo a opporre, non abbastanza, si chiama antisemitismo. Il razzismo non-antisemita lo condanniamo, ma ne conosciamo poco la storia, quindi la grammatica e i modi in cui lavora. Questo non vuol dire che il primo abbia escluso il secondo, anzi – la coscienza dell’antisemitismo e della sua storia ha contribuito e contribuisce significativamente a conoscere e opporsi ad altri tipi di razzismo. Ma l’ignoranza diffusa della storia coloniale può in parte spiegare perché la vignetta in questione riproduca un radicato razzismo intra-europeo senza sollevare sostanziali argomenti antirazzisti (per esempio la critica Daniele Luttazzi, la più radicale che abbia letto, non è centrata sul razzismo).
A dirla così, la questione potrebbe sembrare semplice: si ignora qualcosa, quindi non lo si può efficacemente identificare e opporre; alla fine non si sa come rifiutarlo, e anche se solo in parte lo si accetta, magari per andare contro il “politically correct” o in nome della “libertà di espressione”. Se questo esaurisse il caso della vignetta di Charlie Hebdo sarebbe solo questione di aumentare la conoscenza. Il fatto è che, per farlo, è necessario ammettere onestamente che siamo ignoranti, e qui subentra un problema.
Perché, dopo il processo di decolonizzazione, il razzismo non è diventato parte di politiche culturali serie e organiche nei paesi europei? I motivi sono diversi, ma uno dei più importanti è che adottare tali politiche avrebbe imposto una rivalutazione critica del passato coloniale, includendo risarcimenti ai paesi postcoloniali per i secoli di dominazione e sfruttamento e politiche di immigrazione meno restrittive. Precisi interessi economici, quindi, sono stati fondamentali. Un secondo motivo è che con la dichiarazione dell’Unesco sulla razza, firmata nel 1950 dai più prestigiosi studiosi di differenze culturali, il termine “razza” è stato spazzato via dal vocabolario analitico, inducendo una sorta di tabù in tutta Europa, che in ultimo ha causato una sostanziale rimozione della critica sistematica dell’ideologia che il termine incorporava. Un’ideologia, appunto, che trovava la sua ragion d’essere nell’espansione coloniale e quindi nelle origini del capitalismo stesso – e qui si torna alla prima risposta. La nostra diffusa ignoranza sulla razza in quanto ideologia in continua evoluzione, possiamo concludere, contribuisce a renderci incapaci di identificare il razzismo in quanto pratica o espressione, anche satirica.
Queste due risposte non solo contribuiscono a spiegare, almeno in parte, perché la vignetta non ha ricevuto ferme critiche antirazziste ma comprensibilmente indignati richiami al rispetto per i morti. Possono anche aiutarci a capire perché è stata prodotta e pubblicata. Chi l’ha pubblicata è lo stesso giornale con cui i liberal europei si identificavano all’indomani degli omicidi del 7 gennaio 2015. Molti di loro erano già Charlie nel 2005, all’epoca delle vignette su Maometto, difendendo valori “occidentali”, senza forse prendere abbastanza in considerazione (il silenzio su) secoli di dominazione coloniale, durante i quali, appunto, si formò il razzismo come lo conosciamo oggi.
Nonostante molti si identificassero con Charlie nel 2005 e nel 2015, di fronte alla vignetta “Séisme à l’italienne” qualche dubbio ci è venuto. Ascoltiamolo, riflettiamoci e cerchiamo di capirlo inquadrandolo nella storia del razzismo – può essere un’occasione per imparare dalla storia, la migliore maestra.
Giovanni Picker (twitter: @giopicker)