«Tutto parte da uno grande interesse per le immagini, quelle di testate come Life, l’Europeo, Epoca. Era il momento dei primi esodi dall’Albania ed ero a Brindisi per il militare. Avevo 18 anni e al porto ho visto arrivare numerose persone, vedendole sbarcare è scattata la curiosità per capire cosa li spingesse a viaggiare».
Tutto inizia così, in quell’occasione Francesco fotografò i cittadini albanesi in arrivo al porto pugliese, erano gli anni ’90: «mi si avvicinò quello che poi scoprii essere un giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, era senza fotografo e mi chiese di portare il giorno dopo le foto che avevo fatto in redazione, quella fu la mia prima pubblicazione».
“San Valentino. Amore Salvami. Lui pensava che la ‘sua’ lei fosse morta nell’oscurità della notte. Lei pensava che il ‘suo’ lui fosse sparito tra le gelide onde. Entrambi speravano di rincontrarsi in cielo. Ma il destino gli regalò altri baci. La morte dovrà aspettare”. ©F.Malavolta
Quella che era una passione occasionale divenne così una scelta, e il fotografo decise di documentare i viaggi dei migranti e dei rifugiati. E attraverso le fotografie venne a contatto, tra gli altri, con l’Agenzia dell’Unione Europea Frontex, e poi con Associated Press, Oim, Unhcr, Save the children. I suoi viaggi lo hanno portato nel Mar Mediterraneo, nel canale di Sicilia, nei Balcani e nello Stretto Gibilterra, fino alle rotte turche, greche, afghane.
Oggi Francesco Malavolta osserva che «la grande emergenza per i popoli in arrivo è quella dialettica. Si parla dei flussi migratori come di un problema, con allarme. Si tratterebbe invece di capire quale sia l’andamento delle rotte dei rifugiati, fotografarli per non smettere mai di raccontarli, anche quando l’attenzione mondiale sembra calare». Ed è qui che subentrano i media e il loro ruolo nell’informare, «l’unica emergenza esistente quando si parla di accoglienza di migliaia di persone, è quella operativa, non certo quella umanitaria», aggiunge Francesco.
Costruire un rapporto con i soggetti è indispensabile per il suo lavoro: «m’interessa soprattutto restare umano, capita anche che metta da parte la macchina fotografica. Cerco di focalizzarmi sulla dignità delle persone che fotografo, senza mai stravolgere il contesto. Se c’è un sorriso non rincorro ad ogni costo il dramma, racconto il reale».
“Qualcuno partecipa alle Olimpiadi di nuoto tutti i giorni. Si vince la vita. Osservate, non guardate. Una mamma, la sua piccola bimba, del nastro e una cassetta di polistirolo. Una madre che costruisce per la sua bimba qualcosa che probabilmente non la farà inghiottire dal mare. Osservate non guardate. Pregate”. ©F.Malavolta
Tra i numerosi ricordi che rimangono indelebilmente impressi, durante questi lavori, vi sono «i volti dei bambini, smarriti. O la madre che sistema al figlio un giubbotto di salvataggio fatto con le cassette di polistirolo. O un anziano che ha superato guerre, è stato costretto a sbarcare con il bastone, il cui più grande rammarico è non poter morire nella sua terra, ed è stato tra l’altro etichettato come migrante economico, surreale».
Il metodo di lavoro del fotografo, oltre che sulla dignità, è fondato sul rispetto: «cerco di fotografare persone che hanno voglia di essere fotografate, basta un cenno di diniego e abbasso l’obiettivo, sempre. Prima arriva il mio sguardo, e solo dopo l’obiettivo. Il mio compito è di documentare». Rispetto al suo lavoro fotogiornalistico oggi c’è grande apertura: Milano, Potenza, Valbrembo, Pisa, Vicenza, Roma sono solo alcune delle città dove ultimamente ci sono stati eventi, mostre, incontri. Occasioni per parlare con gli alunni delle scuole medie e superiori, «tante sono le domande, mi fanno sperare che ci sia voglia di cambiare». Il prossimo 20 ottobre a Tiburtina a Roma si aprirà “Non passarci sopra”, una mostra lunga 20 metri, «le foto saranno per terra, bisognerà fare attenzione a non calpestarle, un invito alla riflessione, e ci sarà una mia foto, delle 368 bare allineate del 3 ottobre 2013. Credo infatti che la vera emergenza siano le quasi 11mila persone che non hanno toccato terra e sono morte nel Mediterraneo negli ultimi tre anni».
Oggi i migranti che arrivano «hanno più timore di non farcela, perché spaventati da un’Europa che si chiude, respingendoli», racconta Francesco. «Quando fotograferò il mare vedendo solo quello, sarò la persona più felice del mondo, perché sarà finalmente senza reti e senza muri».
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