«La presenza islamica ci ha trovati impreparati e come reazione i giornalisti hanno semplificato una realtà decisamente più complessa», specifica Stefano Allievi, sociologo e direttore del master sull’islam in Europa all’Università di Padova
Di Piera Mastantuono
Il punto di partenza è l’uso approssimativo e semplicistico del linguaggio in concomitanza con gli ultimi eventi di cronaca internazionale. «Le differenze tra Belgio ed Italia possono essere collocate su tre diversi livelli: storico, statistico e sociologico/urbanistico» esplicita Allievi. «A livello storico l’immigrazione belga e francese si collocano nella fase di ricostruzione post bellica mentre in Italia risale ad appena 20–30 anni fa. Statisticamente poi i numeri più alti per presenze di stranieri non riguardano l’Italia. Basti pensare che il nome più diffuso in Belgio sia Mohamed, dove infatti ci si confronta con la terza generazione di stranieri».
Con l’ultima categoria, quella sociologica/urbanistica, Allievi chiarisce come «le destinazioni degli stranieri in Italia siano le piccole e medie città e a livello occupazionale si collocano soprattutto in ambito rurale. S’impara prima l’italiano regionale, lo definirei un islam dialettale. La percezione diffusa relativa alla presenza degli stranieri in Italia è a dir poco delirante».
La realtà comunicativa «è che in Italia si stia sdoganando un linguaggio aggressivo militaresco che non ha pari in Europa». Questo realismo sproporzionato può avere diverse ragioni «la presenza islamica, più recente rispetto ad altri paesi, ci ha trovati impreparati, e come reazione i giornalisti non si sono specializzati ma, per la maggior parte, hanno semplificato una realtà decisamente più complessa».
Parlare di islam invece che di musulmani è, per Allievi, una delle banalizzazioni più diffuse. «Abbiamo una definizione prestabilita di cosa sia la religione, l’islam, e v’incaselliamo dentro le persone, musulmani. Se corrispondono allo schema bene, altrimenti non si approfondisce». Il pregiudizio in sé non costituisce un problema «ma poi bisognerebbe avere l’umiltà, e la professionalità, di andare a verificare sul campo la propria opinione ed essere disposti, in quanto specialisti della comunicazione, a cambiarla».
L’imam Pallavicini, sul Fatto Quotidiano ha ribadito l’importanza di riconoscere, con un’intesa, l’islam, tra i culti ammessi dalla Repubblica italiana. «In Italia ci sono quasi 800 sale di preghiera, si tratta di luoghi dove ci si riconosce nei valori fondanti» ribadisce Allievi «non certo sedi di complotto. Anzi, chi delinque, mediamente, non ci va proprio, perché spesso ha creato delle reti parallele alle moschee, che sono tra i luoghi più controllati d’Italia». E sul riconoscimento dell’islam tra i culti ammessi evidenzia come possa essere uno strumento per integrare i potenziali alleati, invece di schiacciarli nell’anonimato.
Naturalmente non bisogna distorcere la realtà «i terroristi che hanno compiuto gli attentati sono musulmani, è un fatto, ma che non tutti i musulmani siano terroristi è un fatto altrettanto importante» ed è una delle semplificazioni più diffuse che alimenta i discorsi d’odio.
D’altronde, è necessario tener ben chiaro che «il terrorismo di matrice islamica in Europa sia un prodotto interno europeo con il quale dobbiamo confrontarci. La risposta non è meno Unione Europea ma esattamente il contrario. Bisognerebbe creare una rete d’intelligence europea che sia fonte di sinergia e scambio d’informazioni.» Uno dei motivi principali per farlo è il risparmio, di risorse «attuare una politica d’integrazione è più economico del continuare a portare avanti una politica di contrasto».
La foto in alto è di Miguel Discart (qui su Flickr).