Viene data loro voce, purché corrispondano all’immagine stereotipata che le vuole con il velo, trasformato da politica e media in un elemento stigmatizzante
Diamo loro voce, sì, ma se hanno l’hijab. La rappresentazione stereotipata delle donne musulmane è alla base delle polemiche che vedono protagoniste alcune trasmissioni televisive italiane, che individuerebbero le ospiti musulmane sulla base di un requisito ritenuto a volte indispensabile, quello di indossare il velo. Alcune giovani, però, hanno deciso di dire no, rifiutando di partecipare: “Sì, sono musulmana, porto il velo per scelta, ma sono molto altro”, si è sfogata una di loro, come racconta la Stampa in «”Ci vogliono solo velate”, le giovani musulmane boicottano la tv italiana».
Se è il velo a connotare la donna
Già nel 2013 il primo rapporto dell’Associazione Carta di Roma “Notizie fuori dal ghetto” evidenziava come l’informazione televisiva rappresentasse le donne immigrate spesso come velate: la donna straniera, e musulmana in particolare, veniva connotata quasi esclusivamente attraverso il velo stesso.
La stigmatizzazione mediatica delle donne musulmane non è un problema che riguarda solo l’Italia: numerosi paesi occidentali condividono questo atteggiamento.
La diffusione di un’immagine stereotipata della donna musulmana secondo la Women’s Islamic Initiative in Spirituality and Equality – iniziativa con base negli Stati Uniti che promuove a livello globale i diritti e la partecipazione delle donne musulmane – è una chiara strumentalizzazione: “L’omologazione che vede tutte le donne musulmane velate mira in maniera subdola a rafforzare l’idea della donna musulmana come cittadina passiva, spettatrice delle vicende che la riguardano, la relega al ruolo di vittima, a prescindere”.
Il velo come stigma, dalla politica allo schermo
L’emittente pubblica britannica BBC, ha osservato come tale narrativa sia stata nel tempo rinforzata dalle politiche di alcuni governi europei.
Tra gli altri la Germania e la Lombardia, con il divieto d’indossare il burka, che copre interamente il volto, sino al caso della scorsa estate del burkini definito dall’ex primo ministro francese Manuel Valls come “l’affermazione politica dell’islam in uno spazio pubblico”. La politica più volte è ricorsa al velo come a un simbolo, semplificando in modo estremo una religione e i suoi fedeli, in particolare le donne e i media hanno spesso riproposto il dibattito nella stessa forma. È accaduto, per esempio, nell’estate 2016, quando il dibattito sulla possibilità di indossare il burkini in spiaggia, sollevato in seguito all’attentato di Nizza, catalizzò l’attenzione dei media portando alla ribalta la riflessione sulla compatibilità tra lo stile di vita occidentale e i dettami della religione: in quelle settimane diverse testate italiane hanno proposto l’argomento concentrandosi in maniera esclusiva sull’indumento, senza davvero ascoltare e proporre a lettori e ascoltatori i punti di vista delle donne musulmane.
Una banalizzazione che, in associazione con l’intensificarsi degli attacchi terroristici di matrice jihadista in occidente, ha creato un clima di forte pregiudizio. Osserva la United Nations University, think thank internazionale con sede in Giappone, come in questo modo “le donne velate diventano un emblema semplificato dell’islam e sono spesso il target di destinazione di crimini d’odio, fisici e verbale, di matrice islamofobica in occidente. Anche per questa ragione l’ex primo ministro inglese Cameron aveva introdotto i crimini d’odio anti-islamico come categoria separata”.
Poco spazio e in cornici spersonalizzanti
Nel favorire un clima di conoscenza reciproca l’informazione svolge un ruolo essenziale. La conoscenza da testimonianze dirette sarebbe quindi da prediligere sui media, tuttavia, come rilevato dal IV rapporto di Carta di Roma “Notizie oltre i muri”, i migranti e i rifugiati hanno voce solo nel 3% dei servizi in cui è fatto riferimento a stranieri e minoranze, trasmessi dai tg nazionali in fascia prime time; spesso, inoltre, sono interpellati in cornici spersonalizzanti e contesti tematici negativi.
Ed è proprio il racconto di sé, a vantaggio dello stereotipo su larga scala, che viene meno quando si sceglie di dar voce solo a donne musulmane che indossano il velo: la rappresentazione della complessità, della realtà nelle sue diverse sfaccettature, è abbandonata in favore di una narrativa omologata in cui un unico accessorio sembra, da solo, essere in grado di descrivere un individuo.