Di Alessandro Lanni (@alessandrolanni)
Sulla pelle di migranti e rifugiati in questi mesi si sta combattendo – in Italia e non solo – una battaglia culturale e politica senza precedenti. Propaganda, cattiva informazione e bufale raccontano una realtà che non esiste e alimentano un clima infuocato nell’opinione pubblica. L’estremizzazione del racconto dell’immigrazione riflette e si riflette nella polarizzazione e radicalizzazione delle voci nel nostro paese dove agiscono quelli che Ilvo Diamanti ha più volte definitivo “imprenditori politici della paura”. Ossia quei leader e quelle forze politiche che lucrano consenso attraverso lo spauracchio del migrante nell’opinione pubblica attizzata attraverso lo specchio spesso deformante dei media.
Nello studio realizzato dall’Ethical journalism network, e concluso nel gennaio 2017, si nota come le vicende delle migrazioni seguano due narrative fondamentali proposte da giornali e tv: 1) migranti come vittime e 2) numeri e minaccia della cosiddetta “invasione”. Le emozioni, dunque, come segno comune e unico del racconto delle migrazioni e dei protagonisti che però poco o niente vengono portati sul palco dei media a raccontare le loro storie in presa diretta.
Un punto, quello dell’assenza delle parole dei migranti, sottolineato nell’ultimo rapporto realizzato dall’Associazione Carta di Roma con l’Osservatorio di Pavia. «Le voci dei migranti sono sostanzialmente assenti dalle narrazioni. I protagonisti diretti sono oggetto di comunicazione, come massa indistinta, e solo raramente divengono soggetti di comunicazione». Non solo, quei pochi (circa nel 3% dei servizi sull’immigrazione dei tg parlano migranti) che vengono lasciati parlare sono inseriti in quelli che lo stesso Rapporto definisce «cornici narrative spesso negative e spersonalizzanti».
Se vogliamo che le voci si inizino a sentire più forti, sappiamo però che esistono dei rischi. Fraintendimenti, se non uso strumentale delle parole, rischiano di ottenere l’effetto contrario rispetto a quello di una narrazione giornalistica corretta.
Abbiamo individuato qualche punto da tenere presente prima di affrontare un’intervista con un migrante, con un richiedente asilo o con un rifugiato. Per rispondere ad alcune domande ci siamo rivolti al Dart center, al suo direttore Gavin Rees e alla psicologa Gill Moreton. Il Dart Center è un progetto della Columbia journalism school per la sensibilizzazione dei reporter nei confronti delle persone colpite da traumi.
Intervistare un migrante significa anche conoscere con precisione chi è davvero il nostro interlocutore. Per evitare semplificazioni e stereotipi, per prima cosa è necessario avere le idee chiare. Per dire, chi scappa dalla leva militare in Eritrea non ha la stessa storia di un profugo siriano, come chi è in fuga dall’Iraq e chi parte da un villaggio nigeriano. paesi di provenienza dei migranti contano per un racconto giornalistico ben fatto e aderente ai fatti; come contano le religioni professate.
E poi qual è il suo status legale nel nostro paese? È appena arrivato? Ha formalmente presentato domanda di asilo? Gli è stata riconosciuta una forma di protezione in Italia? È una vittima di tratta?
Ecco, conoscere le risposte a queste domande è fondamentale per comunicare ai nostri lettori nella maniera esplicita, chiara e senza elementi di fraintendimento. Fare confusione, raccontare in maniera poco precisa, significa alimentare la bolla di bufale e la cattiva informazione che circola sui media.
La parola scelta per connotare il migrante intervistato è importante perché, come hanno sottolineato in molti, scegliere un termine piuttosto che un altro può contribuire a rinforzare un pregiudizio sull’interlocutore.
Espressioni come “migrante illegale” o “immigrato illegale”, per esempio sottolinea Human Rights Watch, sono degradanti e implicano che la persona che abbiamo davanti sia un criminale o quanto meno sia nel nostro paese in maniera illegittima. Lo stesso discorso vale per “clandestino” così presente ancora nei media italiani. Parlare di “illegalità” o “clandestinità” aiuta a diffondere l’idea che chi arriva in Italia con un gommone abbia meno diritti degli altri. Più in generale, usare termini come “invasione” vizia la discussione pubblica e la incanala in una polarizzazione dannosa (oltre a essere fattualmente falsa).
E allora, perché non usare parole più neutre come “migrante” o più precise come “richiedente asilo” e “rifugiato”?
Tutto questo – la scelta di usare alcune espressioni piuttosto che altre – ha a che fare con la libertà d’espressione del giornalista? No, ha a che fare con la sua responsabilità e con la sua deontologia professionale.
Come evitare un uso strumentale e ostile dei racconti dei rifugiati? La cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015 ha avuto una tale rilevanza giornalistica che è difficile da nascondere. Storie di migranti e profughi sono comparse – e per fortuna continuano a comparire sui media internazionali e italiani – scavando nelle vite di chi fuggiva dalla guerra in Siria o dalle persecuzioni in Eritrea.
Secondo un vademecum dell’Unchr irlandese «la paura del “ritorno a casa”, di rappresaglie, della stereotipizzazione, una diffusa ostilità nell’opinione pubblica, rendono molti riluttanti a parlare con i giornalisti». Come rassicurarli? L’Alto commissariato dell’Onu suggerisce di:
Definire il giusto peso delle parole del migrante o del rifugiato è un compito che spetta al giornalista che conduce l’intervista. Esistono storie interessanti, che emozionano, singolari, ma che rappresentano poco o nulla la realtà di un paese, di una zona di guerra, di una traversata del Mediterraneo. E allora vale la pena chiedersi: a nome di chi parla la persona che stiamo intervistando? Chi o cosa rappresenta? Sé stesso, una comunità, oppure? Obiettivo: mettere nella giusta prospettiva l’intervista che stiamo conducendo.
«Hai bisogno di una pausa? Ne hai abbastanza di questa intervista? Se sì, il giornalista deve interrompere l’intervista e non insistere». È Gillian Moreton, psicologa del Dart Center specializzata in adulti traumatizzati, a sottolineare come per il reporter debba esistere una linea di rispetto da non oltrepassare. «Riconoscere qualcuno sopraffatto da un’emozione o da un disturbo post-traumatico è fondamentale. Alcuni migranti possono perdersi o essere disorientati nel ricordo di un evento traumatico [come una traversata del Mediterraneo]. Se questo accade, è importante aiutare la persona a concentrarsi sulla sicurezza attuale». Non toccarli – suggerisce Moreton – ma usare la voce e il loro nome per ricordarli dove e chi sono. «Se c’è un amico o un membro della famiglia nelle vicinanze, farli aiutare la persona a sentirsi al sicuro».
«Esiste il rischio che il giornalista possa trasformare il dolore nel prodotto stesso piuttosto che una chiave per comprendere la situazione». Gavin Rees, direttore del Dart Center, mette in guardia i giornalisti che cercano più il dolore e le emozioni che le storie di migranti e rifugiati. «Cosa può aiutare i miei lettori a capire cosa sta succedendo? Questo deve essere l’obiettivo delle nostre domande». A volte la fretta di chiudere l’articolo portano a usare cliché, frasi fatte e banalizzazioni, dice Rees, ma «andare oltre l’immagine a effetto o la citazione è la sfida per il giornalista». Raccontare prendendo fiato cosa sta succedendo.
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