Di Giuseppe Manzo
Nella vicenda drammatica del resort Rigopiano sul Gran Sasso c’è ancora grande ansia per la sorte di tanti dispersi. Sono ore di attesa per i familiari delle persone ancora sepolte sotto la neve. In questi casi a nessun giornalista verrebbe in mente di spulciare la fedina penale di chi è ancora disperso. Tranne in un caso. Sotto quella valanga c’è anche Faye Dame, un senegalese che lavorava nell’albergo colpito dalla valanga. Per lui quasi tutte le principali testate nazionali hanno specificato che si tratta di un “incensurato” ed è “regolare dal 2009”.
Che cosa aggiunge questa informazione? Perché per Faye Dame che condivide la stessa sorte tragica con altre persone va puntualizzata la sua fedina penale? Spesso scaturisce indignazione un titolo esplicitamente discriminatorio come accaduto di recente sempre sull’emergenza freddo: “immigrati al caldo e italiani senza tetto”. Eppure c’è un utilizzo discriminante delle parole più sfumato, come il caso in questione. In una parola si sancisce una separazione anche nel bel mezzo di una tragedia che colpisce decine di persone e un pezzo importante del Paese.
E se Faye Dame non fosse stato “regolare” e “incensurato”? Cosa sarebbe cambiato nel dramma in corso di una persona che insieme agli “italiani” vive la stessa sorte?
Oggi per i migranti il termine “irregolare” è praticamente sinonimo di “clandestino”: “non conforme alle regole”. Le regole (deontologiche) sono anche quelle contenute nella Carta di Roma che fa parte del “Testo unico dei doveri del giornalista”. Gli operatori dell’informazione che non rispettano queste “regole” diventano essi stessi “clandestini” delle parole. Con la speranza che le nostre regole, un giorno, siano rispettate da tutti.
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