Bastardi Islamici è un titolo che non ha nulla a che fare con la professione giornalistica. Questo è un dato certo. Sono parole usate per ferire, che colpiscono indiscriminatamente chiunque professa quella fede religiosa e creano allarme, divisione sociale. Le parole hanno sempre un senso e quelle usate da “Libero” e dall’allora direttore Maurizio Belpietro hanno il sapore della rabbia e della vendetta. Nulla a che fare con la libertà di espressione.
Le ragioni della sentenza con cui il tribunale di Milano ha assolto Libero e Maurizio Belpietro per il titolo Bastardi Islamici, le spiegherà il tribunale stesso. Non ci aspettiamo ne vogliamo che sia la magistratura a stabilire cosa possono scrivere i giornalisti. Ma il problema esiste ed è un problema deontologico, di rispetto della professione, delle persone, di tutte le religioni, di tutti noi.
L’organismo che deve decidere come intervenire è il consiglio disciplinare dell’Ordine dei Giornalisti. Lo ha già fatto una volta con gli stessi attori e con un titolo quasi identico: Bestie islamiche. Il collegio di disciplina ha sanzionato Libero e il direttore Sallusti. Un provvedimento timido e davvero poco efficace: l’avvertimento. Una sanzione sin troppo blanda che ha avuto il solo merito di affermare che un limite esiste: “nell’esercitare il diritto dovere di cronaca, il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona a non essere discriminato per razza, religione, opinioni politiche.”
È ciò che Giovanni Maria Bellu ha definito “l’ovvietà che appare rivoluzionaria”, la banale applicazione di una regola fondamentale della professione giornalistica, della Costituzione Italiana, oltre che una semplice regola di buonsenso e di convivenza civile. Certo una ovvietà espressa attraverso una sanzione quasi insignificante, ma pur sempre un inizio.
La sentenza penale del tribunale di Milano arriva a campagna elettorale già avviata, già piena di parole che feriscono invece che informare. E ora sarà un crescendo, come sempre avviene negli ultimi tempi, in cui la paura e l’odio sono gli elementi portanti delle strategie di conquista del consenso. Le parole per ferire, citando Tullio De Mauro dovrebbero essere sostituite dalle parole per parlare, soprattutto da parte dei giornalisti. Ma a parlare siamo disabituati e chi spaventa invece di informare lo fa con la certezza di non subire conseguenze rilevanti.
Contro quel titolo assolto dal tribunale di Milano, l’Associazione Carta di Roma aveva presentato ricorso assieme ad Asgi all’Ordine dei giornalisti. Ma il procedimento era stato fermato in attesa della pronuncia del tribunale. Come se la sentenza giudiziaria e la deontologia fossero aspetti sovrapponibili. Non è così, non lo sono affatto. Ci sono regole giuridiche che attengono ai tribunali e regole deontologiche che attengono all’Ordine dei Giornalisti.
Chi viola la deontologia professionale non commette un reato, almeno non sempre, ma non può avere certezza di non subire alcuna conseguenza. Noi siamo dell’opinione che chi diffonde odio invece di informazione non possa essere considerato giornalista. Riteniamo che sia il momento di considerare seriamente la parola radiazione per i direttori di giornale che violano in maniera reiterata e continuata il codice deontologico, che diffondono odio e lo chiamano informazione. È una questione di dignità, di giustizia e di rispetto per la libertà di espressione.
Valerio Cataldi (presidente Associazione Carta di Roma)
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