La prima parola che si può associare al racconto dell’immigrazione nel 2019 è “indifferenza”. Non l’ha pronunciata nessuno, ma si legge nei fatti
di Valerio Cataldi per Articolo 21
Una volta, non tanto tempo fa, pensavamo che il pericolo maggiore fosse l’assuefazione. Pensavamo che la frequenza dei naufragi nel Mediterraneo potesse creare una reazione conseguente di distacco, di necessità di chiudere gli occhi. Avevamo paura che potesse diventare una abitudine vedere la morte in mare, che potessimo assuefarci all’eccesso di orrore, che potesse diventare “normale”. Ci sbagliavamo.
Il 2019 inizia con una parola: indifferenza. Non l’ha pronunciata nessuno, ma si legge nei fatti, anzi, nei non fatti. 49 persone in mare, 32 da undici giorni, in attesa di un porto sicuro. Le richieste di aiuto vengono completamente ignorate dall’Europa e quelle navi di soccorso restano in mezzo al mare a navigare lentamente senza una meta precisa.
L’anno nuovo inizia su quel movimento lento e silenzioso, immerso nel gelo del mare, diretto verso il nulla. L’anno vecchio ha accompagnato quel movimento fino qui e lo ha reso accettabile attraverso l’uso compulsivo di parole disumanizzanti che hanno consentito alla cattiveria di diventare una opzione politica consentita e, apparentemente, di grande successo.
Il vocabolario Treccani dice che l’indifferenza è uno stato tranquillo dell’animo che, di fronte a un oggetto, non prova per esso desiderio né repulsione. Il comportamento di chi, in determinata circostanza o per abitudine, non mostra interessamento, simpatia, partecipazione affettiva, turbamento.
Niente. Non fa effetto. Non ci turba. Né desiderio né repulsione. Quei volti che arrivano dal Mediterraneo non ci turbano più.
Ma è la modalità del racconto a dare forma alle cose e alle persone: rende possibile l’invasione dove i numeri dicono che non c’è; consente di percepire insicurezza mentre i reati diminuiscono; garantisce l’esistenza di clandestini da cui è necessario difendersi; permette di sminuire gli orrori inimmaginabili che l’Onu denuncia nei centri di detenzione libici.
La percezione che abbiamo del fenomeno migratorio è fondata sulla distorsione della realtà veicolata dalle parole pronunciate dalla politica. Lo scorso anno ci hanno detto che la pacchia è finita ed hanno chiuso i porti. Hanno definito smania di altruismo la passione di una ragazza rapita mentre era impegnata in Kenya ad aiutare. Hanno detto che le malattie infettive vengono trasmesse dai vestiti sporchi. Hanno definito crociera il viaggio dei barconi.
Hanno coniato un neologismo da usare come un insulto: buonismo, che la Treccani definisce ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversarî. Ma buonismo ha generato anche il suo opposto: cattivismo, che la Treccani ci indica come l’atteggiamento di chi, rifiutando per principio ogni ipotesi di mediazione, mira a tenere alto il livello dello scontro politico e ad alimentare i contrasti sociali.
Alimentare i contrasti sociali. Spaventare.
La paura serve a giustificare l’indifferenza per quelle 49 persone abbandonate alla deriva nel Mediterraneo nei giorni di natale, per fermare l’invasione che non c’è oggi e non c’è mai stata prima.