Il progetto si pone come obiettivo quello di cercare una nuova forma di narrazione delle migrazioni, «ho iniziato a lavorare sulle migrazioni per conoscere il tema oltre al racconto mediatico. Per conoscerle al meglio ho perciò iniziato a viaggiare, in particolare sulle rotte dei migranti. Mi sono mosso in particolare su quella orientale. Nell’arco di 7 – 8 anni, ho viaggiato tra Caucaso, Turchia, Medio Oriente, Balcani, Igoumenitsa, trascorrendo anche interi anni nei campi profughi». Ha collaborato inoltre, saltuariamente, con Osservatorio Balcani Caucaso.
Dalla scrittura alle immagini il passaggio, seppur non definitivo, è fatto d’istinto «corteggio da sempre la macchina fotografica, sin dalla reflex di mio padre. Questo, combinato con la passione per il cinema ha portato al primo documentario: ho chiamato un amico per andare in Grecia a girarlo ed è nato Just about my fingers, 2010». Nel 2014 ha girato invece il film-documentario Terra di transito.
Il workshop, che Martino realizzerà con il collega Matteo Cusato, è intensivo ed è uno strumento particolarmente importante per Martino «perché credo sia una metafora della produzione cinematografica con i suoi ritmi folli e spesso senza orari». Secondo il programma, dopo un primo giorno introduttivo e conoscitivo si creeranno dei gruppi di lavoro, «delle piccole troupe che sperimenteranno e realizzeranno le diverse fasi produttive del lavoro cinematografico».
Si parte innanzitutto dal lessico nella consapevolezza che «il cinema non vive di sole parole ma bisogna sicuramente partire dalla terminologia che si possiede, in questo caso sul tema migranti, e metterla in discussione. Credo che nella nostra società identitaria si tralasci spesso il rapporto umano, per cui il migrante è colui che ha fatto un viaggio e basta, ciò è limitante».
Il workshop parte naturalmente dall’attualità ma l’ipotesi di sconfinare è nell’aria frizzante «mi piace confrontarmi con gli studenti e vorrei stimolarli a sperimentare punti di vista diversi rispetto alla città eterna, osservare come le persone di passaggio inquadrano casa nostra».
Tor Pignattara, Piazza Vittorio, Termini, Ostiense, sono alcuni dei grandi bacini d’insediamento che verranno esplorati, alla scoperta di quel particolare equilibrio autonomo che si è creato all’interno. Entrarvi con telecamere e macchine non è semplice poiché di sono di fatto strumenti intrusivi, tuttavia «l’immagine di per sé è il punto di partenza e poi ci si lavora sopra perché è l’elemento autoriale la parte interessante, è lì che s’instaura a narrazione, astraendone la simbologia».
Le madri, i minori e i cosiddetti pionieri, ovvero chi ha scelto Roma da più di trent’anni, saranno i soggetti di partenza in questo lavoro di ricerca, «la sfida è reagire alle sollecitazioni credo all’intuizione istintiva quando sei in rec, ed essendo un workshop di filmmaking parte tutto da lì».
Il racconto per il regista parte dalla rottura, della routine e del linguaggio stesso. In questo modo si scopre la potenzialità di una narrazione diversa, quella dell’audiovisivo.
«Conoscendo i migranti conosci le persone, e ognuno ha avuto un impatto su di me. Tutti hanno contribuito ad essere quello che sono oggi. La cosa più importante è che non esiste una normalità tra stanzialità e migrazione, la normalità è un concetto riduttivo» soprattutto perché il migrante non è altro da sé, ma con sé, ed il workshop può aiutare a scoprirlo.
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