70 anni fa, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riunita a Parigi, al Palais de Chaillot, proclamava “La Dichiarazione universale dei diritti umani”. Quel documento intendeva costruire il vocabolario della democrazia intorno a “parole comuni” nelle quali tutti avrebbero dovuto riconoscersi.
Come ci insegna il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, bisogna avere cura delle parole “essendo la democrazia dialogo, gli strumenti del dialogo, le parole, devono essere oggetto di cura particolare, come non è in nessunʹaltra forma di governo. Cura duplice: quanto al numero e alla qualità […] Le parole, poi, devono rispettare, non corrompere il concetto. Altrimenti, il dialogo diventa un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con la frode”.
Per descrivere ciò che avviene nel mondo occorre trovare le parole giuste, un vocabolario non solo comune, ma che rifletta la complessità dei fenomeni tentandone una spiegazione.
Gli ultimi decenni sono stati fortemente caratterizzati dal tema delle migrazioni: continuamente sotto l’esposizione dei media, entra nei discorsi comuni, condiziona il dibattito politico, ma pare, alle volte, sottrarsi ad una definizione comune.
Il significato stesso del termine migrante è tutt’altro che univoco. Per l’UE migrante è “persona che lascia il proprio paese o regione per stabilirsi in un altro, spesso in cerca di una vita migliore”, il che può includere anche coloro che si spostano per lavoro e sono dotati di competenze anche molto qualificate; nell’uso comune il migrante è quasi sempre identificato nell’immagine dei disperati che attraversano il mediterraneo sui barconi. Nei media il termine migrante è spesso accompagnato o sostituito dai termini rifugiato e profugo, nel migliore dei casi; talvolta il migrante è direttamente indicato come clandestino, vocabolo, peraltro, inesistente nella giurisprudenza italiana.
Serpeggia nel discorso comune, attraverso i media e l’uso politico della cronaca, l’immagine della migrazione come invasione, allarme, emergenza, come questione legata all’ordine pubblico e alla sicurezza, che genera timori ed ansie e legittima pensieri e atti di respingimento.
Come avverte l’Associazione Carta di Roma “le parole possono trasformare la realtà e la responsabilità è anche, e forse soprattutto, di chi scrive e riproduce quelle parole” [mentre] “la ricerca della verità sostanziale dei fatti, con l’uso corretto delle parole e l’obiettività dei numeri sono il solo argine alla costruzione distorta della realtà”.
Nel groviglio della terminologia sembra poi sfuggire il dramma umano di centinaia di migliaia di persone che nel mondo si spostano in fuga da guerre, dittature, cambiamenti climatici o povertà.
Alle ore 9:00 presso il Centro di promozione sociale “Il Quadrifoglio” in Via Savonuzzi 54 (FE), se ne discuterà con Sabika Shah Povia, giornalista dell’Associazione Carta di Roma; Lorenzo Guadagnucci, giornalista, Quotidiano Nazionale; Sandro Abruzzese, insegnante e scrittore, Livia Claudia Bazu, poetessa; Alexandre Hmine, insegnante e scrittore; il gruppo di OCCHIO AI MEDIA; Christiana De Caldas Brito, scrittrice e psicologa; Milton Fernandez, scrittore, attore e regista teatrale; Tahar Lamri, scrittore e giornalista.
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