A cura di Articolo 21
«Fra le cose che gli immigrati cercano da noi c’è uno dei beni che la modernità ha reso indispensabile quanto l’acqua e il cibo: la visibilità, cioè la possibilità di recitare, magari da comprimari, una parte sul palcoscenico del mondo; una possibilità che – stante la struttura e le priorità del sistema mediatico occidentale – nei loro Paesi sarà loro sempre preclusa, a meno che essi non diventino vittime o carnefici».
Così Sergio Frigo, già capo servizio al Gazzettino, fondatore e direttore della rivista “Cittadini dappertutto”, sui temi dell’integrazione. Frigo è tra i relatori che sabato 29 aprile interverranno all’incontro di formazione per giornalisti, che si terrà nella sede di Verona (via Evangelista Torricelli 49) del Consolato del Regno del Marocco, che patrocina l’evento assieme all’Ordine dei giornalisti del Veneto. La giornata sarà dedicata a come l’informazione racconta l’immigrazione, l’islam e i nuovi italiani, ovvero i figli di genitori stranieri nati in Italia. Sarà la Console Generale del Marocco, Nezha Attahar, a fare gli onori di casa, introducendo un tema che, spiega l’organizzatrice dell’evento, la giornalista Romina Gobbo «rappresenta una sfida per l’informazione, oltreché una grande responsabilità. Perché la narrazione mediatica influenza l’opinione pubblica».
Zouhir Louassini, giornalista Rai ed editorialista dell’Osservatore Romano, focalizzerà la sua attenzione sull’Islam, «che – dice – deve liberarsi dalle vere e proprie catene rappresentate da interpretazioni appartenenti ad altre epoche». Anna Meli, direttrice comunicazione della ong Cospe, presenterà l’attività dell’associazione Carta di Roma, di cui è stata coordinatrice, fondata nel 2011 per dare attuazione al protocollo deontologico per un’informazione corretta sui temi dell’immigrazione, siglato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa italiana. Andrea Priante, inviato del Corriere del Veneto, porterà la sua esperienza di “operatore infiltrato” nel campo profughi di Cona nel Veneziano, «per raccontare le condizioni in cui si vive e si lavora all’interno di queste maxi-strutture».
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