Di Alessandro Lanni (@alessandrolanni)
«Sappiamo che rifugiato o migrante è la formula da scrivere, ma la gente su Google cerca clandestino e allora nei nostri articoli sul web dobbiamo usare quello». Spesso alcuni giornalisti sollevano questa obiezione di fronte a chi invita a usare almeno nell’informazione un linguaggio appropriato per parlare di immigrazione. Si tratta di un dubbio che sembra avere un fondamento, bisogna andare incontro alle persone e se queste usano quel linguaggio i giornalisti non possono essere snob.
Prendere sul serio la questione ci porta a due domande: 1) Davvero le cose stanno così? È vero che le persone cercano più clandestino? 2) Cosa può fare un giornalista? Per rispondere si tratta di capire cos’è la Seo (Search Engine Optimization) e perché sapere cos’è può essere utile per i giornalisti.
Ma cominciamo dagli aspetti quantitativi.
Iniziamo da un confronto fatto su Google Trends, la sezione del motore di Mountain View che fotografa gli andamenti delle ricerche nel mondo negli ultimi anni. Premessa necessaria: si tratta di approssimazioni, di tendenze, che tuttavia restituiscono un’idea di come ricerchiamo su Google e al tempo stesso come negli anni sono cambiate le nostre ricerche, il nostro linguaggio e quindi le nostre idee.
Negli ultimi 90 giorni il numero di ricerche su “rifugiati”, “clandestini” ed “extracomunitari” è più o meno equivalente. Gli italiani che cercano notizie non privilegiano una termine più degli altri. Un equilibrio che se confrontato con lo storico degli ultimi 5 anni testimonia una certa inversione di tendenza.
Ma è poi vero che clandestino funziona meglio che migrante nelle ricerche? Tutto da dimostrare. Per esempio se prendiamo i due trend di ricerca su Google negli ultimi 12 mesi per i due termini, è vero che clandestino è stato cercato più di migrante. Se tuttavia si circoscrive l’ambito a Google News, ovvero ai siti d’informazione, la percentuale si inverte. Nelle notizie si cerca più il termine migrante che clandestino. Se poi si sostituisce il plurale al singolare, migranti supera negli ultimi 365 giorni clandestini senza ombra di dubbio.
Poi c’è la questione del giornalismo.
«La Seo è uno strumento relazionale tra persone e contenuti». E per questo serve ai giornalisti. La mette così Alberto Puliafito, giornalista, direttore di Slow News e autore di Dcm. Dal giornalismo al Digital Content Management (CDG 2016). «In altre parole, significa che ci sono persone vere che digitano parole su Google e io, se conosco e so usare strategie e tecniche Seo, posso portare queste persone da Google ai miei contenuti».
Ormai da anni, addetti ai lavori (e non solo) cercano strade per arrivare in prima pagina nei risultati di Google e la Search Engine Optimization dovrebbe essere lo strumento per interpretare il segreto dell’algoritmo che regola le classifiche di ricercabilità. E questo par valere per qualsiasi prodotto on line, siano scarpe, lampade, hotel o anche news.
Eppure, c’è chi obietta che così i giornali si farebbero dettare la scelta e la gerarchia delle notizie dal pubblico, in questo caso nella forma degli utenti che cercano su Google. «Utilizzare tecniche Seo non significa subire passivamente le ricerche» controbatte Puliafito. «Piuttosto è uno sforzo continuo per capire come le persone parlano e quindi utilizzare quel modo di parlare e di cercare su Google in maniera coerente con la tua linea editoriale». E così l’autonomia del giornalista è salva.
«Ho fatto un test» aggiunge Puliafito. «Mi sono messo a cercare su Google cosa cerca la gente quando vuole informazioni sugli immigrati. Per esempio, se cerchi “un immigrato” uno dei primi suggerimenti di Google è “un immigrato costa più di un agente [di polizia]”. Ciò significa che esistono persone che hanno sentito questa affermazione e la digitano. E allora che cosa si può fare? Si può attirare verso il nostro articolo una persona usando quelle parole su una pagina dove, utilizzando un linguaggio semplice, le dici quello che vuoi dire senza dirle subito che è una bufala la storia del costo, perché altrimenti rischi di far fuggire il lettore non convinto». L’obiettivo è intercettare lettori nuovi attraverso le loro ricerche, questo non significa che siano i lettori attuali o potenziali a dettarti titoli e linea editoriale. E, ovviamente, non significa mentire nel titolo, ma piuttosto costruire il titolo, e l’articolo, perché non respingano fin da subito un lettore mal disposto. Meglio dunque titolare con “Un rifugiato costa più di un poliziotto? Ecco come stanno le cose” piuttosto che “Non è vero che un rifugiato costa più di un poliziotto”.
«La scelta di un tag o la scelta di una categoria da attribuire a un articolo cambia il contenuto. Se quando scrivi di Berlusconi e le olgettine parli di “corruzione” fai una scelta quando parli di “gossip” ne fai un’altra, molto diversa. “Taggare” è un lavoro giornalistico». Andrea Iannuzzi, coordinatore del Visual lab del Gruppo L’Espresso, riconosce l’importanza delle parole che quindi non possono essere subordinate alla scelta tecnica. «Clandestino e profugo non sono sinonimi. Chi fa il titolo con il primo sceglie un campo, e non può essere governata dalla Seo una scelta del genere».
Una recente indagine del Global Web Index realizzata tra circa 90mila utenti sparsi nel mondo tra i 16 e i 64 anni segnala come chi cerca qualcosa sul web lo faccia ancora più attraverso i motori di ricerca che sui social media.
Eppure si tratta di un universo in continua evoluzione. La crescita del traffico attraverso dispositivi mobili (smartphone ecc.) sta cambiando anche le abitudini nel consumo dei contenuti. «Sul mobile – nota Iannuzzi – i contenuti arrivano in maniera diversa che dal computer da tavolo. Le ricerche diminuiscono e cresce il traffico via social e app».
La rilevanza dei motori di ricerca (e quindi Google) come fonte di informazioni è variabile. Dipende dalle fasce d’età, dalle aree geografiche di provenienza, dai contenuti ricercati. In una ricerca molto approfondita sui Millenials (18-34 anni) americani e i loro consumi di news, l’American Press Institute certifica una forchetta variabile ma in ogni caso consistente: dal 30 a più del 70% dei giovani americani utilizzano Google per avere informazioni. Dipende dal tema: politica “solo” il 31%, scienza e tecnologia il 52%.
Alla domanda “A chi ti rivolgi per primo se cerchi un’informazione?” i Millenials Usa rispondono per il 57% a un “motore di ricerca” e solo al 7% a Facebook. E alla domanda su quale fonte sia più utile, il 50% risponde Google e ancora 7% Facebook e solo il 2% Twitter.
Vista da questa prospettiva la Seo non deve essere immaginata dunque come una disciplina esclusiva del tecnico che lavora lontano dal giornalista. Al contrario, l’ottimizzazione per i motori di ricerca è un elemento fondamentale del prodotto giornalistico oggi. Non solo del suo successo, ma della sua stessa sopravvivenza.
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