Il sociologo algerino Abdelmalek Sayad ha definito le migrazioni «un’occasione privilegiata […] per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale». Da sempre, infatti, la presenza di immigrati e immigrate permette agli autoctoni di specchiarsi e riflettersi nei “nuovi arrivati”. Le migrazioni e le retoriche che costruiamo attorno a esse, cioè, illuminano ciò che siamo. Talvolta, però, illuminano soprattutto ciò che vorremmo essere e, quindi, specchiandosi nei nuovi arrivati la società ricevente si rappresenta come “più civile”, attribuendo agli ospiti politicamente indesiderati (ma economicamente utili) le proprie mancanze, le proprie brutture.
Il sociologo algerino Abdelmalek Sayad ha definito le migrazioni «un’occasione privilegiata […] per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale». Da sempre, infatti, la presenza di immigrati e immigrate permette agli autoctoni di specchiarsi e riflettersi nei “nuovi arrivati”.
Le migrazioni e le retoriche che costruiamo attorno a esse, cioè, illuminano ciò che siamo. Talvolta, però, illuminano soprattutto ciò che vorremmo essere e, quindi, specchiandosi nei nuovi arrivati la società ricevente si rappresenta come “più civile”, attribuendo agli ospiti politicamente indesiderati (ma economicamente utili) le proprie mancanze, le proprie brutture.
Parte da qui l’articolo scritto da Francesco Della Puppa, autore di “Uomini in movimento. Il lavoro della maschilità fra Bangladesh e Italia” (Rosenberg&Sellier, 2014) per Naga, nel quale analizza il modo in cui l’episodio di Colonia sia stato trasformato dai media nel frutto di una specificità «“culturale e religiosa”, quando non “etnica” e “razziale”».
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