La ragazza rifugiata che risiede a Perugia ha fatto domanda per il ricongiungimento con la madre, ma non è stata accolta
Di Anna Meli e Elena De Zan
Pubblicato su Redattore Sociale
Essere donne in Afghanistan significa non sentirsi mai al sicuro, non vedersi riconosciuti i propri diritti fondamentali, significa dover lottare ogni giorno per non essere estromesse dalla vita pubblica. Ne sa qualcosa Madina (nome di fantasia, per non metterla in pericolo), giovane afghana ormai residente a Perugia da una decina d’anni, che non può più tornare nel suo paese a causa di una “sentenza” di matrimonio forzato.
La sua storia ha avuto inizio prima della partenza per l’Italia, quando alcuni parenti di Madina sono entrati in conflitto con un altro gruppo familiare a causa di alcune dispute per la spartizione dei terreni. Queste liti hanno raggiunto toni molto violenti, fino a giungere ad un esito drammatico: tre persone di ambedue le famiglie sono state ferite e un uomo dell’altra famiglia è stato ucciso. Il colpevole dell’omicidio però non è mai stato trovato. Col passare del tempo le violenze e le vendette sono man mano degenerate, divenendo una vera e propria faida tra famiglie. Per questo motivo la risoluzione del conflitto è stata affidata al jirga, una riunione di capi villaggio e anziani. La jirga ha decretato che la pacificazione tra le famiglie sarebbe avvenuta tramite un matrimonio riparatore tra Madina e un uomo anziano sconosciuto alla giovane, già sposato e padre di sette figli.
«Di solito fanno sposare una ragazza per la vendetta» ha spiegato Madina, sottolineando che il suo ruolo di seconda moglie equivarrebbe a quello della serva: in Afghanistan le donne che sono costrette a sposarsi per decisione di un jirga vengono continuamente umiliate dalla famiglia in cui entrano e trattate come schiave, ne diventano una proprietà. I genitori di Madina, rifiutando l’idea che la figlia potesse essere schiavizzata, si sono coraggiosamente opposti a questo matrimonio-prigione. Il padre di Madina ha tentato di reagire interpellando anche le autorità che in risposta lo hanno intimato a far tornare la figlia per portare a termine la cerimonia. Al rifiuto dei parenti di farla tornare in Afghanistan si sono susseguite continue minacce da parte della famiglia “rivale” e da parte dei talebani. Questi ultimi, nonostante la guerra sia iniziata nel 2001 non hanno mai abbandonato il paese, e fungono da vero e proprio braccio armato del jirga.
Queste persecuzioni, perpetuate anche tramite l’uso della violenza, hanno costretto i parenti di Madina a sopravvivere nella latitanza e nella paura: da quel momento sono stati costretti a vivere scappando di villaggio in villaggio, temendo per la loro sicurezza. Vista la situazione, Madina ha deciso di non tornare più in Afghanistan e, per sottolineare la sua situazione, nel 2013 ha richiesto ed ottenuto lo status di rifugiata sur place, nonostante potesse rimanere tranquillamente in Italia con il suo permesso di soggiorno precedente. Madina però è turbata più che per la sua incolumità per quella della madre: la donna sta affrontando questa situazione di crisi completamente sola, in quanto attualmente il padre è scomparso ed il nonno è morto recentemente. La vita di una donna sola in Afghanistan è estremamente difficile, anche il minimo spostamento fuori da casa diventa un’impresa. La madre è stata minacciata da uomini armati che le sono perfino entrati in casa quando lei era completamente sola, per estorcerle delle informazioni su Madina e sul marito.
Spinta dalla preoccupazione per le condizioni di vita della madre, Madina ha fatto richiesta di ricongiungimento familiare, per permetterle di venire in Italia. La prefettura di Perugia ha concesso direttamente il nullaosta senza bisogno di esibire documenti particolari poiché per le domande di ricongiungimento presentate da rifugiati in favore di loro familiari, la legge prevede che non si debba dimostrare di avere un lavoro ed un alloggio in Italia. Il nulla osta rilasciato dalla Prefettura poi serve al familiare che vuole fare ingresso in Italia per richiedere il visto all’Ambasciata italiana.
E qui sono iniziati i problemi. L’Ambasciata italiana a Kabul infatti non ha accolto la domanda di visto. Prima le sono stati richiesti documenti che dimostrassero il legame di parentela tra madre e figlia e, dopo mille difficoltà dovute all’assenza in quel Paese di sistemi di anagrafe simili ai nostri, tali documenti sono stati esibiti. Successivamente l’Ambasciata ha richiesto che venisse anche provato il fatto che la madre fosse a carico della figlia, cioè che Madina provvedesse a mantenere la madre. Ma allo stato attuale non è possibile dimostrarlo perché i soldi che Madina ha passato durante questi anni alla madre (indispensabili per la sua sopravvivenza, in quanto in Afghanistan difficilmente le donne riescono ad avere accesso al mercato del lavoro) le sono stati inviati solo raramente tramite Western Union, con una ricevuta, preferendo piuttosto mandare i soldi tramite la mediazione di amici e persone di fiducia. Si tratta di una consuetudine consolidata, utilizzata da migranti di diverse nazionalità (anche di paesi lontanissimi dall’Afghanistan, come può essere l’Ucraina), per ovviare al problema della mancanza di uffici Western Union nei piccoli villaggi.
L’indifferenza degli amministratori dell’ambasciata italiana di fronte alla condizione della madre ha lasciato Madina esterrefatta in quanto “dal momento che una donna è da sola uno deve interessarsi della sua storia. Lei è arrivata da sola in ambasciata, portando con sé tanti, tantissimi problemi!”. Nonostante la situazione di emergenza i tempi della giustizia sono estremamente lunghi: dalla richiesta di ricongiungimento familiare ad oggi sono passati 17 mesi e l’udienza per il ricorso (presentato in Tribunale a Perugia contro il rifiuto del visto) è stata fissata a fine maggio. Decisamente troppo tardi per una donna che rischia quotidianamente la sua vita.
L’articolo originale è qui.
Nell’immagine sopra donne in Afghanistan.