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Hate speech: comunicazione tra giornalista e lettore da ripensare

Di fronte al fenomeno dei discorsi d’odio sempre più diffuso, le redazioni italiane faticano a adottare politiche interne per gestirli. Beppe Giulietti: “Bisognerebbe allegare la Carta di Roma al contratto di lavoro”

È stata presentata ieri in Fnsi la ricerca “L’odio non è un’opinione“, realizzata da Cospe in collaborazione con l’Università di Firenze, che traccia il legame tra hate speech, giornalismo e migrazioni.

Nell’ambito dell’indagine sono state contattate otto testate italiane (La Stampa, La Repubblica, Il Tirreno, Fan Page, Il Fatto Quotidiano, Corriere della Sera, L’Espresso online, Il Post) per individuare le pratiche adottate nella gestione dei discorsi d’odio. Tra gli intervistati all’interno delle redazioni direttori, caporedattori, social media manager, blogger.

Di seguito un articolo di Avvenire tratto dalla rassegna di oggi che sintetizza i risultati della ricerca e il dibattito sviluppato intorno a essa.

La ricerca. Quando l’intolleranza corre sul web

Di Matteo Marcelli, per Avvenire


Quello dell’hate speech, incitamento pubblico all’odio, non è un fenomeno nuovo ma il web ne ha diffuso la pratica in maniera esponenziale con lo svantaggio di renderlo incontrollabile. Se un giornalista è tenuto a trattare notizie su rifugiati e migranti sulla base di un protocollo deontologico del 2008 (la Carta di Roma), chi commenta i suoi articoli su un social network non lo è.

Su questa forma di “intolleranza 2.0” si concentra lo studio della onlus Cospe (Cooperazione per sviluppo paesi emergenti) “L’odio non è un opinione. Hate speech, giornalismo e migrazioni” presentato ieri nella sede della Fnsi assieme alle associazioni Articolo 21 e Carta di Roma. Una ricerca prodotta nell’ambito del progetto europeo contro la discriminazione sul web, “Bricks – Building Respect on the Internet by Combating hate Speech”.

«Mancano dati su questo fenomeno e non è facile monitorarlo – spiega Alessia Giannoni di Cospe – A livello nazionale si può fare affidamento sull’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali): nel 2014 sono stati registrati 347 casi di espressioni razziste sui social network, di cui 185 su Facebook. Con i link che le hanno rilanciate si arriva a 700 e nel 2015 è già stato rilevato un trend in aumento».

Il punto è capire come le testate online gestiscono la relazione tra lettori e giornalisti. Spesso è assente una moderazione e gli utenti sono lasciati liberi di esprimersi: «La presenza di una policy che determini le regole potrebbe aiutare dice ancora Giannoni – ma molte testate non ce l’hanno».

C’è poi la questione delle implicazioni sulla libertà di espressione, da cui il provocatorio titolo dello studio. «L’odio non è un’opinione e non c’entra nulla con la libertà di espressione – dice Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi – La questione non riguarda solo i giornalisti, ma lo sdoganamento progressivo di una certa modalità di linguaggio». Giulietti insiste poi sulla responsabilità degli editori che «non possono tirarsi indietro», e sulla necessità di allegare la Carta di Roma al contratto di lavoro.

«Bloccare l’hate specch non è censura – afferma il vice presidente dell’associazione Carta di Roma, Pietro Suber – Impedire l’odio è un atto di responsabilità civile, un dovere professionale».

«Rendere la Carta di Roma parte del contratto può aiutare i giornalisti a difendersi dalle pressione degli editori», spiega Elisa Marincola, portavoce di Articolo 21, che chiama in causa anche le scelte operate sulla gerarchia delle notizie: «Dobbiamo illuminare quegli angoli che non vengono mai raccontati. Un lavoro di cui tutti dobbiamo farci carico».

Per l’articolo originale clicca qui.

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