“Una realtà non adeguatamente regolata e difficile da monitorare”. Così Medici per i diritti umani descrive i centri di accoglienza straordinaria del ragusano nel suo rapporto, “Asilo precario“. Quattordici mesi di osservazione diretta in cui l’organizzazione ha raccolto informazioni da operatori e ospiti dI 16 centri della provincia, arrivando a delineare un quadro delle maggiori criticità.
Nel ragusano, come in tutta Italia, la maggior parte dei richiedenti asilo è ospitata nei Centri di accoglienza straordinaria. Istituiti come strutture dove i richiedenti asilo dovrebbero attendere solo il tempo necessario per organizzare il trasferimento nei centri dello Sprar, in assenza temporanea di posti, i Cas sono diventati di fatto centri di accoglienza ordinaria.
Gli ospiti vi soggiornano spesso per la durata intera del percorso burocratico relativo alla domanda di protezione internazionale. In media passano 4 o 5 mesi dall’arrivo fino alla Commissione territoriale; vi è poi l’attesa dell’esito, circa altri 60 giorni e infine, in caso di diniego, vi sono 30 giorni di tempo per presentare ricorso.
“Gestire l’accoglienza dei migranti secondo le logiche dell’emergenza, dei piani straordinari e di convenzioni provvisorie con una moltitudine di enti gestori disparati è anacronistico ed inefficiente – scrive Medu – La scelta di una gestione emergenziale comporta il rischio di minori controlli pubblici sull’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici. Soprattutto, comporta un abbassamento degli standard di accoglienza“. La dimensione medio-piccola di questi centri, che potrebbe rappresentare un elemento positivo, perde così le sue potenzialità.
Medu rileva come il personale risulti spesso insufficiente rispetto alle esigenze di supporto socio-psicologico, socio-assistenziale e legale dei richiedenti asilo.
Solo 3 dei 10 enti che hanno in gestione le strutture della provincia hanno una precedente esperienza nell’accoglienza ai migranti: “La maggior parte dei Cas si presenta sotto-organico e gli operatori impiegati hanno tempo, mezzi e competenze limitati per dedicare sufficiente attenzione alle esigenze di ogni singolo ospite“. Quelli presenti sono per lo più impiegati in cucina, lavanderia, pulizia, mentre il personale addetto all’ascolto degli ospiti, alle pratiche burocratiche, all’orientamento legale è insufficiente.
Anche la mediazione linguistica e culturale non sempre è disponibile: in 9 Cas su 16 il mediatore non era presente e se presente non svolgeva unicamente questa attività o si limitava all’interpretariato. Solo una tra le strutture offriva un servizio di mediazione adeguato.
Lo scarso supporto, unito all’isolamento di alcune strutture, crea un forte senso di esclusione e solitudine. “Gli ospiti dichiarano di sentirsi abbandonati e non orientati verso un territorio per loro sconosciuto, raccontano di non aver nulla da fare durante la giornata e di non esser in grado di trovare ‘altro’ fuori dal Cas – sottolinea Medu – La relazione di tipo assistenzialistico che si instaura in molti casi reitera una condizione di passività, con conseguenze negative soprattutto per le persone che hanno vissuto esperienze traumatiche, quali violenze, torture e privazioni della libertà“.
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