Di Valentina Brinis per Huffington Post
Un ventenne gambiano domenica si è suicidato gettandosi nel Canal Grande a Venezia. A nulla sono valsi i tentativi di soccorrerlo da parte del pilota di un vaporetto perché la sua intenzione era proprio quella di farla finita.
È superfluo incolpare le cattive prassi amministrative o le lungaggini burocratiche che lo avrebbero portato a compiere quell’infausto gesto, anche se si tratta di procedure che necessitano di miglioramenti significativi. La causa principale – e quella su cui dobbiamo riflettere – è da ricercare nel suo stato di vulnerabilità derivante da numerosi fattori.
In primis il viaggio compiuto per raggiungere l’Italia e poi la frustrazione di non vedere realizzato il proprio progetto di vita. Il tutto aggravato dalla solitudine: lasciare la propria casa e fuggire impone delle circostanze davvero difficili da sopportare, come per esempio il compimento di viaggi illegali e insicuri in balia dei trafficanti e l’assenza di una rete amicale e familiare nel paese in cui si arriva.
Elencati così sembrano delle inezie ma tradotti nella gestione della vita quotidiana rendono ogni azione un ostacolo insuperabile. L’ansia, il panico, la tristezza, l’insoddisfazione sono i sentimenti più vissuti dai richiedenti asilo e che maggiormente vengono riportati a chi si cura di loro. Le storie narrate sono sempre incredibili per la durezza e la ferocia che le connota.
Ieri, per esempio, una giovane donna nigeriana mi ha raccontato di aver perso la figlia durante la traversata del Mediterraneo a bordo di un’imbarcazione che è affondata: “mi è scivolata dalle mani”, diceva. Sono rimasta in silenzio e basita mentre lei mi chiedeva “do you understand?”. Purtroppo sì, mia cara, ho capito bene.
Convivere con quel vuoto, con i sensi di colpa e cercare (sperando di trovarla) la forza di andare avanti. Questa è la vita interiore di un richiedente asilo. La realtà esterna è sentirsi chiamare “Africa” mentre stai annegando.
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