Su Nigrizia
Si muore lungo la frontiera bielorussa. Si muore senza che sia possibile testimoniare quel che accade. Vietato l’accesso al confine per giornalisti, operatori umanitari e deputati europarlamentari. Ma non ai cacciatori di cinghiali, ai quali sarà concesso muoversi e sparare, tra quei boschi dove si nascondono 5mila persone che cercano di varcare i confini
Avin aveva 38 anni e un figlio in grembo, morto da venti giorni, quando è deceduta per setticemia. All’arrivo in ospedale la sua temperatura corporea misurava 27 gradi. Troppo freddo, troppa fame, troppa sete in quel bosco in cui si nascondeva, insieme al marito Murad e ai suoi altri cinque figli, dai primi di novembre. Partiti dal Kurdistan iracheno, i sette ambivano semplicemente a una vita migliore. Per questo si erano messi in viaggio, cercando di varcare l’ennesima frontiera.
Avin è solo l’ennesima morte avvenuta in quel confine bielorusso, dove è difficile stimare il numero delle persone che transitano e sostano. Secondo il governo polacco, queste ultime sarebbero 5mila. Ma come si può dirlo con certezza? Da mesi, in quel tratto di confine che separa la Bielorussia dalla Polonia, non è consentito l’accesso a nessuno che non abbia il lasciapassare della polizia di frontiera. Divieto assoluto per chiunque, soprattutto per giornalisti, personale delle ong, dell’Unhcr, associazioni di aiuto umanitario. Persino a cinque europarlamentari è stato negato il passaggio qualche giorno fa.
In questo confine, secondo Grupa Granica – una sigla che mette insieme 14 associazioni polacche che si occupano di migranti e svolgono azione di monitoraggio e denuncia lungo la frontiera –, quando finirà l’inverno, si scioglierà la neve e verranno rimosse le restrizioni all’accesso, si scopriranno tanti cadaveri.
Intanto però, nessuno deve essere testimone di quel che davvero accade tra quei boschi. Nessuno deve portare aiuto e conforto dove, da agosto, centinaia e centinaia di profughi iracheni, afghani, siriani, yemeniti, somali transitano. Alcuni già richiusi nei centri di detenzione gestiti dalla polizia di frontiera, altri, tantissimi, in movimento in mezzo alle foreste tra Bielorussia e Polonia, ma anche Lituania e Lettonia.
14mila agenti
E proprio tra i boschi polacchi, dal 10 dicembre, si aprirà la caccia al cinghiale. La notizia dell’autorizzazione da parte del governo, arrivata qualche giorno fa, ha destato le proteste di varie associazioni della società civile e umanitarie: una decisione irresponsabile e inumana, troppo il rischio per chi si muove nello stesso sottobosco, cercando di sfuggire ai controlli della polizia. Sono 14mila gli agenti che pattugliano quel lato del confine polacco.
E tra chi pattuglia c’è anche chi si blinda, respinge e rimpatria. La Polonia ha già iniziato a costruire la recinzione che dovrebbe separarla dalla Bielorussia: il muro di filo spinato, lungo 180 chilometri e alto 5,5 metri, dovrebbe essere finito entro metà 2022. Prima dunque di quello lituano, per cui sono stati stanziati 152 milioni di euro. Il muro della Lituania, che va a integrare il mucchio di filo spinato che già esiste, sarà dotato di attrezzature sofisticate di videosorveglianza, sarà lungo 500 chilometri e concluso entro settembre del prossimo anno.
E mentre si erigono barriere, per venire incontro a questi paesi, la commissione europea ha proposto, i primi di dicembre, misure eccezionali e temporanee che consentono a Polonia, Lettonia e Lituania di rimpatriare con maggiore flessibilità chi entra irregolarmente dal confine bielorusso. Procedure rapide che, riconosciute dalle istituzioni europee, finiscono, secondo Amnesty International, per normalizzare la disumanizzazione dei rimpatri.
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