Giuliano Scarpinato, regista dello spettacolo per ragazzi ispirato alla vicenda di Alan Kurdi, il bambino trovato riverso sulla spiaggia turca di Bodrum nel settembre 2015, ha raccontato la tragica vicenda attingendo a cronaca e fiaba e trovando una nuova narrazione onirica
Di Piera F. Mastantuono
“Alan e il mare” è il titolo dello spettacolo teatrale di Giuliano Scarpinato per provare a raccontare, a bambini e ragazzi, l’indicibilità dei giovani morti tra i migranti. Prodotto dal teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia-Giulia, andrà in scena per la prima volta a Milano il 5 maggio nella cornice del Festival Segnali. Associazione Carta di Roma ha intervistato il regista.
Come nasce l’idea dello spettacolo?
«Come spesso accade nel mio lavoro sono stato letteralmente folgorato dall’immagine del piccolo Alan riverso sulla spiaggia turca di Bodrum. Vederla mi ha portato a chiedermi come poter spiegare a bambini e ragazzi l’enormità di un fatto simile, la morte prematura di un bambino e un genitore che sopravvive a un figlio. Ho perciò iniziato, da un anno e mezzo a questa parte, a studiare il materiale e ho raccolto i racconti dei protagonisti dalla vicenda, come Abdullah Kurdi, il padre del bambino, e Nilufer Demir, la fotoreporter che ha scattato la foto. Il mio sforzo creativo è stato quindi quello di rendere l’episodio altamente simbolico ma che contenesse comunque in sé anche i racconti dei casi simili che la cronaca mediatica mostra ogni giorno».
Come hai costruito lo spettacolo?
«Non volevo traumatizzare il pubblico dei piccoli, ho cercato perciò di trasformare la morte del bambino attraverso una pescificazione. Questa metamorfosi permette di avere una doppia dimensione narrativa, da un lato il bambino-pesce che vive tra alghe e coralli, dall’altro l’incontro con il padre, possibile, seppur per breve tempo. Siamo nel mondo della fiaba, dalla Sirenetta a Colapesce, ma anche film come La vita è bella per il tono e l’equilibrio tra drammaticità e ironia.
Lo spettacolo si basa su due elementi armonici tra loro: da una parte i due attori (Michele Degirolamo e Federico Brugnone) e dall’altra la scenografia (Diana Ciufo) che rappresenta una sorta di vetrata in frantumi sulla quale sono proiettate immagini in video mapping (Daniele Salaris) che raccontano il mondo fantastico di sogni e di immaginazione che padre e bambino condividono. Sognano di continuare a viaggiare insieme, compiono viaggi della fantasia, che vengono tradotti in immagini oniriche. È un caleidoscopio di suggestioni marine, mai di cronaca».
Perché raccontare la storia drammatica di un bambino siriano in uno spettacolo per ragazzi?
«Nello spettacolo ci sono temi universali come il rapporto tra padre e figlio e la perdita. Ho deciso d’iscrivere tutto questo nell’epopea dei migranti, che è l’epopea dei nostri giorni. Non ho raccontato in modo cronachistico tutto quello che già sappiamo. Ho voluto raccontare una storia personale, nella cornice della più grande storia umana.
Penso che il teatro per ragazzi abbia un margine di libertà e sperimentazione straordinario, le nuove generazioni sono il pubblico più attento, lucido e incontaminato che si possa incontrare. Un’occasione imperdibile».
Quale valore aggiunto può dare il teatro alla narrativa della migrazione?
«Credo che il teatro possa fare una cosa molto interessante ovvero scardinare la narrazione meramente cronachistica delle migrazioni aprendo squarci di poesia e sogno nella cronaca. Siamo abituati al racconto delle migrazioni attraverso immagini che sono spesso tragicamente uguali, il teatro toglie un po’ di anestetico alla nostra percezione del fenomeno scombinando le carte. Con “Alan e il mare” ho provato a raccontare la vicenda di due migranti partendo dal sogno invece che dal racconto della realtà per poi arrivare a una nuova narrazione che, spero, possa fare breccia».
La foto in evidenza è di Giovanni Chiarot