Nel mondo sono più di 12 milioni; in Europa almeno 600mila. Sono gli apolidi, coloro che nessuno stato riconosce come propri cittadini, tra le fasce più esposte all'indigenza e al rischio di sfruttamento a causa del proprio status giuridico.
«Vivere senza documenti e nazionalità è come non essere mai esistiti su questo mondo». Sono le parole di Isa, nato in Kosovo quando esisteva la Jugoslavia. È fuggito a Belgrado dopo il conflitto del 1999, ma poiché non aveva alcun documento di identità non è mai stato registrato come sfollato. Il suo primissimo documento, il certificato di nascita, è stato rilasciato solo nel 2013, quando aveva ormai 29 anni. Nonostante ciò, a oggi resta un apolide, non può ereditare la nazionalità dal padre (a sua volta apolide) o dalla madre (che lo ha lasciato quando aveva due anni). Non può sposarsi, veder riconosciuta la paternità dei suoi figli o visitare la famiglia in Kosovo. Isa vive in condizioni d’indigenza perché non può lavorare legalmente, ricevere assistenza sociale o ottenere un’assicurazione sanitaria. Vive con la sua famiglia in un insediamento non ufficiale, in una baracca improvvisata fatta di assi di legno e materiali di scarto, senza acqua, elettricità o impianto fognario; non può presentare domanda d’accesso all’edilizia pubblica. Racconta di sentirsi come se non fosse mai esistito. La sua sola possibilità è essere naturalizzato come cittadino serbo, ma sarà difficile per lui soddisfare la richiesta di presentare ulteriori prove documentarie sulla sua residenza. Intanto resta bloccato in un circolo vizioso, affronta la vita stando in un limbo. Isa non può essere messo regolarizzato, a causa della sua condizione di apolide, perché la Serbia manca di ogni procedura di determinazione di questo status.
Isa è uno dei venti apolidi intervistati dallo European Network of Statelessness, le cui storie sono raccolte nel rapporto «Still Stateless, Still Suffering».
Nel mondo oltre 12 milioni di persone sono apolidi e almeno 600mila di queste si trovano in Europa. Non riconosciuti come cittadini da alcuno stato, gli apolidi a causa della loro condizione giuridica sono spesso privati dei diritti civili e politici, della possibilità di lavorare regolarmente e di condurre una normale vita sociale. A sessant’anni dalla sua emanazione, la Convenzione sull’apolidia delle Nazioni Unite, che stabilisce una serie di diritti per gli apolidi, ancora non è stata ratificata universalmente. Persino tra i paesi che l’hanno fatta propria, vi è chi non ha adeguato le normative nazionali ai principi dettati dalla Convenzione. La mancanza di procedure per la determinazione dello status di apolide e il riconoscimento dei conseguenti diritti rappresenta, o l’esistenza di procedure inefficienti, è ancora una realtà in numerosi paesi.
Questo relega le persone apolidi in uno stato d’indigenza dato dall’impossibilità di accesso a un lavoro regolare, alla previdenza e all’assistenza sociale. Non solo: prendere la patente di guida, iscriversi all’università, sposarsi, sono solamente alcune delle tappe precluse agli apolidi.
Lo European Network of Statelessness, del quale fa parte anche ASGI, promuove una petizione che verrà presto presentata al Parlamento Europeo per la ratifica universale della Convenzione dell’apolidia del 1954 e per l’istituzione di procedure di regolarizzazione all’interno di ogni paese.
Un’occasione per approfondire il tema dell’apolidia avrà luogo a Roma il 10 ottobre, in occasione del sessantesimo anniversario della Convenzione, promossa da UNHCR e dal Consiglio italiano per i rifugiati. Qui il programma dell’evento: Incontro apolidia.
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