Di Domenica Canchano
Baracche in un batey.
Juliana Deguis Pierre è nata in Repubblica Dominicana 31 anni fa, ma la sua storia nel paese caraibico inizia nel 1975. Quando suo padre, che aveva meno di 20 anni, decise di attraversare l’isola, direzione Oriente. Ad attenderlo c’era la mamma di Juliana. I suoi genitori arrivarono in Repubblica Dominicana a seguito dell’Accordo di contrattazione in Haiti e l’ingresso in Repubblica Dominicana di lavoratori haitiani, con il quale si permetteva il lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. Per loro, oltre il confine, c’era il Paradiso. E così la famiglia si allargò: l’1 aprile del 1984 nell’ospedale del Municipio di Yamasa, nacque Juliana. Costruirono il loro “paradiso” in un batey, uno di quei campi che esistono per i lavoratori di canna fin dal 1918 e che oggi sono quasi 400 disseminati in tutto il paese.
«Ho studiato fino al terzo anno di scuola primaria dopodiché ho iniziato ad aiutare i miei genitori», ricorda Juliana mentre è seduta nello studio del suo avvocato Genaro Rincón a Santo Domingo. L’uomo che l’ha riportata “in vita” dopo essere stata cancellata dallo Stato, il 23 settembre 2013. «Data in cui è stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale, che non solo denazionalizzava Juliana Deguis Pierre, ma tutti i dominicani figli di immigrati haitiani nati nel paese come lei – spiega Rincón, specializzato in diritti umani – Il peggio è che questa sentenza ha effetto retroattivo, cioè va a colpire chi è nato dal 1929 fino al 2007, anno in cui la Giunta Centrale Elettorale ha emanato la delibera 2/2007 in cui si vietava i funzionari di stato di consegnare i documenti alle persone figli di genitori haitiani».
Questa non è quindi solo la storia di Juliana ma di decine di migliaia di persone che sono state trasformate in apolidi. «Quando ho compiuto 18 anni come tutti i ragazzi ho chiesto la mia carta d’identità, per farlo mi sono recata all’Anagrafe dove prima dovevo prendere il mio atto di nascita – racconta Juliana – Ma l’Ufficio del Municipio di Yamasa mi negò questo diritto adducendo il motivo che sono figlia di stranieri “in transito” e che i miei genitori non avendo residenza non avevano diritto a fare la dichiarazione di nascita presso l’Anagrafe ma nel consolato del loro paese. Da quel momento in poi e per 12 anni sono rimasta senza alcun documento».
Per il governo dominicano un uomo che ha vissuto oltre quarant’anni nel paese è da considerarsi in transito. Il 15 giugno di quest’anno, Juliana, ha ottenuto il suo certificato di nascita trascritto e con questo ha richiesto la sua carta d’identità e il passaporto. «Per il momento rimarrò in Repubblica Dominicana a lottare per i miei quattro figli – afferma Juliana – Quando sono nati non avevo i miei documenti e quindi non potevo iscriverli all’Anagrafe. Al mio posto lo fece mia sorella».
Luglio 2015. Una delle manifestazioni organizzate in Repubblica Dominicana dai cittadini di origine haitiana, contro la possibile espulsione.
Ma perché il papà di Juliana e quello di molti altri non sono riusciti a regolarizzare la loro posizione anni prima? Risponde Rincón: «Gli immigrati arrivati nel paese sono entrati per mezzo di accordi in materia di appalti firmato dai due paesi nel 1959 e 1966. Sono stati portati per lavorare nei campi, per tagliare e coltivare la canna da zucchero del Consiglio di Stato zucchero (Organo autonomo il cui obiettivo è il coordinamento e l’efficace funzionamento delle raffinerie dello Stato, ndr). Con questo accordo lo Stato dominicano si impegnava a fornire un permesso di soggiorno e una carta d’identità per gli stranieri. Lo Stato non lo ha fatto, ma i lavoratori non sono illegali, sono solo in una condizione di mancanza di documentazione forzata». A giugno del 2014 il governo dominicano vara una sanatoria, durato fino al 17 giugno di quest’anno.
Dal 15 agosto è in atto ufficialmente il rimpatrio degli haitiani. «Le autorità per più di due mesi hanno continuato a dire che il giorno 18 di giugno avrebbero deportato tutti gli haitiani non iscritti nel Piano – conclude l’avvocato Rincón – Già da quel momento migliaia di persone hanno cominciato a partire per conto proprio per non perdere i loro beni, e non essere vittima della violenza dei gruppi nazionalisti. Hanno paura di essere linciati, come già avviene dall’anno scorso. E vivono con il terrore che si ripeta la mattanza del 1937 contro gli haitiani e i loro figli».
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