A cura di Associazione 21 luglio
“Case popolari ai poveri, ma solo se sono è rom”, è questo il titolo dell’articolo pubblicato sul quotidiano Libero in data 01.06.2017, a firma del giornalista Mattias Mainiero.
Nell’analizzare il Piano Rom presentato a fine maggio dalla giunta capitolina, l’articolo porta avanti la tesi secondo cui i rom “intascheranno il contributo casa”, previsto dal piano, e “occuperanno l’abitazione. Poi, con calma, gireranno la loro casa ad altri e ritorneranno nei campi rom, ovviamente guadagnandoci sopra”.
Questo perché i rom “sono nomadi e non amano vivere sotto un tetto stabile” e “le abitudini (secolari) sono le abitudini e cambiarle nel giro di poco è di fatto impossibile”.
Dunque, conclude Mainiero, ecco svelato il paradosso: “si dà un’abitazione a chi non la vuole e la si nega a chi ne avrebbe realmente bisogno e da anni non riesce ad ottenerla”, riferendosi ai cittadini romani in emergenza abitativa.
Osservatorio 21 Luglio esprime preoccupazione in merito al contenuto stereotipato dell’articolo, che si configura come esempio di informazione scorretta per almeno tre ragioni.
Innanzitutto si ripropone, generalizzando, un’immagine negativa dei rom, considerati come un blocco monolitico e inclini per natura all’imbroglio, al sotterfugio e ad attività illegali.
In secondo luogo, è preoccupante che ancora nel 2017 i rom siano rappresentati come una popolazione nomade che non vuole per cultura vivere in una casa, nonostante questi siano da tempo per la maggioranza stanziali, come dimostrato anche dal Rapporto Conclusivo dell’indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti in Italia diramato nel 2011 dalla Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica, in cui si evidenzia come la percentuale di rom effettivamente nomade in Italia sia pari solo al 3%.
Infine, la costruzione narrativa esposta nell’articolo è finalizzata, fin dal suo titolo, a supportare la tesi secondo cui i rom vantino di fantomatici privilegi, a discapito delle migliaia di cittadini romani in emergenza abitativa e che vivono in stato di povertà, operando una contrapposizione su base etnica.
Bisogna completamente decostruire tale narrazione, in cui tutti e tre gli aspetti evidenziati concorrono simultaneamente a produrre nel discorso pubblico un’immagine negativa dei rom, ponendo la questione in maniera distorta e mettendo al centro gli aspetti legati alla cultura e all’appartenenza etnica.
Sulla base dell’iniziale “abbaglio” del nomadismo, divenuto con il tempo strumentale, le amministrazioni italiane hanno giustificato politiche discriminatorie che da decenni, a partire dagli anni ’80, continuano a segregare i rom nei campi monoetnici, senza strutturare alcun tipo di reale percorso di inclusione.
Ciò ha prodotto e radicato una situazione di emarginazione, analfabetismo e povertà, da cui, certo, in alcuni casi sono nate anche sacche di illegalità e criminalità, come è prevedibile che accada.
Chi vive nelle baraccopoli istituzionali delle nostre città è figlio di questo circolo vizioso che va avanti, spesso, da tre generazioni. Non è un nomade. Non sceglie di vivere nei campi. Molti sono nati in Italia. Alcuni sono italiani, altri scontano problemi legati al riconoscimento della cittadinanza. Gran parte di loro si sentono romani, milanesi, napoletani, torinesi… .
E chi sceglie di partire dal proprio paese, principalmente la Romania, e venire in Italia, popolando gli insediamenti informali, non lo fa in nome di un’intrinseca spinta al nomadismo, ma fa parte di quei molti migranti economici, presenti spesso da anni in Italia ma che sono costretti a continuare a vivere nella marginalità.
Allo stesso modo, e qui è l’anello di congiunzione, non hanno avuto possibilità di scelta quei cittadini italiani che abitano le nostre periferie, caratterizzate da carenza di servizi, disoccupazione, bassi tassi di scolarizzazione e criminalità.
Il punto è esattamente questo. Occorre de-etnicizzare la questione, che va posta sotto il profilo dei diritti, del lavoro, dell’alloggio e dell’accesso ai servizi. Per tutti.
Esiste un filo diretto che lega e coinvolge fette di città: la condizione delle baraccopoli istituzionali ha prodotto negli anni sacche di marginalità; i migranti che arrivano nel nostro paese vivono, spesso, in condizioni di estrema precarietà; le nostre periferie sono state progressivamente abbandonate e sono sempre di più le famiglie ridotte in stato di povertà e emergenza sociale.
Bisogna cominciare a chiamare le cose con il loro nome.
E gli organi di informazione sono chiamati a giocare un ruolo importante, svolgendo il proprio mestiere in maniera corretta, evitando di diffondere tra l’opinione pubblica stereotipi e pregiudizi, che altro non fanno che aumentare le tensioni sociali e giustificare ulteriori politiche discriminatorie. Che vanno a svantaggio dell’intera cittadinanza.
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