Non solo numeri, ma persone con una storia alle spalle. Lo si sente dire spesso a proposito di migranti e rifugiati. Per comprendere davvero quella storia, però, è indispensabile essere in possesso di alcune conoscenze che contribuiscono a costruire il quadro generale e complesso nel quale sono generate determinate dinamiche e fenomeni, come i flussi migratori. Nozioni che, grazie al web, i lettori più “attivi” e attenti oggi possono reperire con maggiore facilità rispetto al passato, ma che, al contrario, continuano a non trovare spazio nei media generalisti.
Epidemie, crisi alimentari, guerre e violenze che avvengono in determinate aree del mondo sono raccontati solo da poche immagini e articoli.
Quando si legge che nel 2015 i principali paesi di provenienza di chi ha chiesto asilo in Italia sono Nigeria, Pakistan, Bangladesh, Gambia e Senegal, in molti replicano che dovremmo aiutarli “a casa loro”, senza avere alcuna cognizione circa la situazione a casa loro, molte volte senza neppure essere in grado di collocare questa casa loro – ammesso che ve ne sia una – sul mappamondo. Come pretendere che lettori e ascoltatori siano consapevoli di cosa avviene nel mondo e aggiornati, se questi come molti altri paesi sono ignorati in primo luogo dai media?
I media mainstream italiani dedicano poco spazio agli esteri. Come spiegava a Carta di Roma lo scorso febbraio, a proposito dei telegiornali, Paola Barretta dell’Osservatorio di Pavia: «È un dato strutturale, l’Italia non parla di alcune aree a differenza di altri paesi. La copertura di alcune aree è connessa direttamente alle risorse disponibili, ma è anche vero che i servizi possono essere acquistati; resta quindi una scelta». «La pagina degli esteri in Italia – aggiungeva – è ben al di sotto della media europea e non è una novità. Si tende a coprire alcune zone solo se vi è una catastrofe – naturale per esempio – o perché vi è un testimonial; la notiziabilità si attiva solo nel caso in cui si risponda ad alcuni criteri».
Se lo spazio per gli esteri è poco, quello riservato alle situazioni di crisi in alcune aree geografiche è ancora meno. Lo ha confermato per dieci anni il rapporto di Medici Senza Frontiere sulle crisi umanitarie dimenticate, che nella sua edizione conclusiva nel 2014 sottolineava come lo spazio dedicato dai notiziari di prima serata ai contesti di crisi fosse crollato dal 16,5% nel 2004 al 2,7% nel primo semestre del 2014. Eppure, osservava Medici Senza Frontiere, secondo un’indagine Eurisko il 63% della popolazione italiana avrebbe desiderato ricevere dai media più informazioni sulle emergenze umanitarie.
Il problema, tuttavia, non riguarda solo la scarsità di spazio dedicata alle crisi umanitarie, ma anche la qualità, specie se ci si sofferma su alcune zone del globo, come il continente africano.
Secondo Antonella Sinopoli, giornalista da anni in Ghana presente all’ultimo Festival di Perugia per un dibattito sul racconto mediatico occidentale dell’Africa, il limitato numero di corrispondenti è uno dei fattori rilevanti. Da un lato i pochi corrispondenti si trovano a coprire moltissimi eventi su un’area vastissima, dall’altro se non vi è un corrispondente saranno di più i servizi e gli articoli realizzati dalla redazione o da inviati. Per chi viene catapultato per pochi giorni o settimane in Africa senza un’appropriata preparazione, o chi scrive seduto dietro a una scrivania a decine di migliaia di chilometri di distanza senza conoscenze approfondite sull’area trattata, è più semplice cadere nella trappola della semplificazione e dell’appiattimento della realtà, tralasciando tutte quelle dinamiche, quei processi e quegli elementi che possono essere colti e compresi solo da chi ha avuto modo di vivere o vivere un certo luogo.
Tolu Ogunlesi, giornalista che vive a Lagos – vincitore del CNN Multichoice African Journalism Award, anche lui tra i relatori a Perugia lo scorso aprile – ribadiva la necessità di una svolta nel racconto dei fatti dei paesi africani, definendo quello dei media occidentali in Africa un “giornalismo da elicottero”: «Reportage dall’alto e dal di fuori. I giornalisti si paracadutano nei Paesi del continente nero per dare bocconi di notizie e tornare, subito dopo, a casa».
Una lunga premessa, questa, per ricordare l’importanza di realtà come l’agenzia missionaria di stampa Misna, che dal primo gennaio sarà chiusa. Fonte di notizie che, se non fosse per chi svolge un lavoro di qualità sul campo con costanza – con le gravi difficoltà che lo accompagnano in alcuni paesi e regioni del mondo – neppure raggiungerebbero le redazioni europee.
Ci auguriamo che i media italiani riflettano, in queste circostanze, sul ruolo fondamentale dei fari che, come la Misna, illuminano le periferie del mondo. Di più: ci auguriamo che da questa riflessione scaturisca la volontà di dare maggiore spazio a notizie che, oggi più che mai, sono fondamentali per la comprensione di quello che accade qui, in Europa.
Solo con una contestualizzazione adeguata l’informazione – per quel che compete Carta di Roma su migranti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tratta – potrà essere davvero completa.
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