Di Laura Berti. Tratto dal sito dell’Usigrai
Basta con l’incitamento all’odio. Basta con termini dispregiativi, allusivi. Basta con impaginazioni di quotidiani o tg insinuanti. Basta, una volta per tutte con le notizie false diffuse ad arte per alimentare sospetto e razzismo. Gli eventi drammatici che riguardano i rifugiati in questi ultimi anni ci hanno messo difronte alla necessità di analizzare con maggiore attenzione le parole utilizzate e i contesti in cui vengono inserite.
Un’attenzione costante su linguaggio e contenuti, del resto, è sempre un dovere per chiunque svolga la professione di giornalista e ancora di più se lavora nel Servizio pubblico. Un dovere etico.
Un obbligo stigmatizzato dalle varie carte deontologiche: Roma, Treviso, Trieste, Milano, Perugia. Attenzione al linguaggio e ai contenuti non solo per i rifugiati, ma anche per i bambini, chi soffre di disturbi mentali, per i malati in genere, per chi è diversamente abile o chi è rinchiuso in un carcere. Parliamo dunque di tutte le persone che in una società hanno una posizione più fragile.
Verso tutti loro abbiamo una responsabilità di diffusione di notizie che, che se fatta con parole e modalità sbagliate, rischia fortemente di alimentare o creare falsi e pericolosi stereotipi poi difficili da cancellare nel sentire comune. E perché queste Carte deontologiche non restino lettera morta è necessario avviare una riflessione complessiva, proprio partendo da Nohatespeech e allargandolo a tutti i soggetti deboli.
Questo perché l’odio e il razzismo si alimentano non solo usando un linguaggio violento o insinuante, ma anche non parlando affatto di chi è emarginato o discriminato.
Il Servizio pubblico deve tornare ad avere anche un ruolo etico e aiutare a procedere in un cammino di civiltà, consapevolezza e tolleranza verso chi è “diverso”. Ma quante volte e in che modo, nei telegiornali, parliamo di queste persone socialmente fragili? Che tipo di linguaggio usiamo? Per essere più chiara, un esempio su tutti per quanto riguarda il disagio mentale. Se per un omicidio d’impeto perpetrato da una persona perfettamente sana di mente, si continua a parlare di “folle omicidio”, o “tragedia della follia”, quale sarà l’immagine del paziente psichiatrico nell’immaginario collettivo? In questo modo chi soffre di problemi psichiatrici viene assimilato ad un pazzo pericoloso e potenzialmente sanguinario; un modo per alimentare pregiudizio e ed emarginazione. Solo un esempio, si diceva, ma forse il più chiaro di tutti.
Perché, dunque, prendendo il via da #nohatespeech, non concepire un osservatorio sulle diversità che vigili sulla presenza o meno nei tg e nei programmi giornalistici di tutti questi “soggetti sociali deboli”? perché non iniziare a raccogliere dati su come la diversità, le differenze, vengono affrontate negli spazi informativi del Servizio pubblico?
Un’operazione del genere potrebbe dare alla Rai una nuova spinta nel riconquistare la posizione di televisione che dà un’informazione veramente completa nel riportare la realtà del Paese e permetterle di sottrarsi dall’imbarbarimento umano imperante. Non solo. Potrebbe anche restituirle il ruolo di guida sotto il profilo etico-educativo per le nuove generazioni.
Si tratta di un’iniziativa che potrebbe riavviare il dialogo all’interno delle redazioni, riallacciare i fili di una comunicazione e di riflessioni vitali per il nostro lavoro di giornalisti e indispensabili per una coscienza sindacale. Un progetto ambizioso che prevede un grosso lavoro. Ma credo, personalmente, che se vogliamo un vero, nuovo Servizio Pubblico, non possiamo prescindere dal cercare nuove strade per una Rai moralmente credibile e di pubblica utilità.
Ma soprattutto non possiamo pensare che senza confronto quotidiano all’interno delle redazioni, si possa fare un buon lavoro giornalistico.
Per aderire alla campagna #nohatespeech clicca qui.
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