Contro xenofobia e generalizzazioni, rilanciamo di seguito un articolo pubblicato dall’Espresso alcuni giorni fa, la testimonianza di un giovane giornalista italiano di origini marocchine e fede musulmana.
Di Brahim Maarad per L’Espresso
Poteva esserci il mio viso in quelle foto segnaletiche. I tratti somatici di Salah Abdeslam, ricercato per gli attentati a Parigi, sono simili ai miei. Abbiamo entrambi 26 anni. Con l’ideatore della strage invece condivido le origini. I genitori che hanno messo al mondo Abdel Hamid Abaaoud sono marocchini. Come lo sono i miei. E come lo sono io. Mi chiamoBrahim Maarad, sono musulmano e faccio parte della “generazione Bataclan”.
Venerdì sera in quel teatro ci sarei potuto essere anche io. Così come sarei potuto essere davanti allo stadio oppure di fronte al ristorante Le Petite Cambodge. Non avrei però avuto un kalashnikov in mano e, tanto meno, una cintura esplosiva attorno alla vita. Io sarei stato una delle troppe vittime. Perché al Bataclan avrei accompagnato qualche amico per passare una serata insieme. Allo stadio ci sarei andato per seguire la partita. Avrei tifato per la Francia. Perché tra i bleu i musulmani sono tanti. E perché da mezzo italiano che sono reggo poco i tedeschi. Al ristorante ci sarei andato perché mi fido delle recensioni online.
Quel venerdì sera sarei morto anche io. Perché mi sarei trovato dall’altra parte rispetto agli attentatori. Nelle anagrafiche siamo simili, nella realtà non possiamo essere più diversi. Siamo opposti. Loro sono i terroristi e io sono quello terrorizzato. La nostra somiglianza, le nostre origini comuni, non mi salvano dalla loro condanna. A loro queste mie parole sono sufficienti per giustificare la mia esecuzione. Per loro non sono più musulmano. Sono il nemico. Uno dei tanti.
Io invece musulmano lo sono eccome. Sicuramente più di loro. Assolvo i miei obblighi da quando ho cominciato a comprenderli. Frequento abitualmente la moschea da quando avevo dieci anni. Nel 2013, quando quei ragazzi lasciavano le banlieue parigine per andare a combattere in Siria, io facevo il mio primo pellegrinaggio alla Mecca, in Arabia Saudita. In grande anticipo rispetto all’età media. Anche il mio era Jihad. Perché nell’islam Jihad è ogni sforzo sostenuto per Allah. Anzi, il mio vale di più perché il profeta Maometto ha detto che “il jihad più meritevole è un pellegrinaggio compiuto piamente”.
Leggiamo lo stesso Corano ma lo interpretiamo in modo differente. Loro giustificano l’uccisione di persone innocenti facendo riferimenti a versetti che parlano della guerra per difesa. Io invece mi soffermo sui versetti che evidenziano la sacralità della vita: “Chi salva una vita è come se avesse salvato l’umanità intera”. Obbligano le persone all’islam eppure il Corano è chiaro: “Non c’è costrizione nella religione”. Per loro l’Occidente è il nemico, per me è casa. Chi abita vicino a me lo considero un amico, quando va male un conoscente. Loro lo considerano un miscredente. Chi massacra i civili per loro è un eroe, per me è un criminale. Chi si fa saltare in aria per me non è un martire, è un suicida. Se uccide anche altre persone è un assassino che si è tolto la vita.
Il grande interrogativo che mi pongo è: perché siamo così diversi? Perché dalla stessa culla sono usciti vittima e assassino. Perché loro quando prendevano in mano per la prima volta un fucile, io prendevo una penna per scrivere i primi articoli di giornale? Perché loro sono terroristi e io sono giornalista? Perché loro sono così feroci da trucidare centinaia di persone e io quando prendo una multa per divieto di sosta non dormo la notte? Che merito ho io? Che colpe hanno loro?
In questi anni qualcosa non ha funzionato nell’integrazione. Eppure chi è nato e cresciuto in Francia dovrebbe aver avuto un percorso meno tortuoso del mio. A Parigi l’Islam non è nuovo. Lo è l’estremismo. Io invece in Italia ci sono arrivato quando avevo già dieci anni. Sedici anni fa i miei nuovi compagni di scuola non avevano nemmeno idea di cosa fosse l’islam. Quando ho iniziato il mio primo Ramadan, il mese di digiuno, ero in prima media e i trenta giorni non sono stati sufficienti a chi mi conosceva per comprendere cosa stessi facendo. Oggi il Ramadan viene annunciato in televisione. Integrarsi dovrebbe essere più facile, ma non è per niente scontato. Non lo è mai stato. Non basta nascere in un Paese per sentirsi parte di esso. Lo stiamo scoprendo in ritardo, pagando un carissimo prezzo.
La mia preoccupazione ora è riuscire a capire quanti Abdel Hamid Abaaoud fanno parte della generazione Bataclan. Perché il cittadino per strada non sa, e non può, riconoscere la differenza tra me e Abdel Hamid.
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