Abbiamo parlato spesso di odio in questi giorni e della responsabilità che hanno i media. Ci siamo soffermati sull’hate speech e sulla necessità di imparare a gestirlo, ma non abbiamo parlato di come l’odio e la paura, quelli che pervadono l’opinione pubblica, siano in parte generati dagli stessi media. Del ruolo fondamentale che giocano le parole ha scritto Valerio Cataldi, giornalista del TG2. Rilanciamo di seguito la sua riflessione, scritta per Articolo 21.
Di Valerio Cataldi
Ascoltavo distrattamente la cronaca del soccorso di un barcone. Parlava di “extracomunitari” ma non era chiaro a chi si riferisse perché le persone soccorse erano rifugiati siriani mentre i soccorritori erano pescatori turchi. È un po’ paradossale questa vicenda, ma dà certamente il senso degli automatismi che scattano in chi racconta i fatti, nei giornalisti.
Sono automatismi nell’uso di parole sbagliate a volte inconsapevoli altre volte invece voluti, pienamente volontari, direi studiati. È il caso del racconto di un prete eritreo che da anni riceve le chiamate di soccorso di barche in difficoltà in mezzo al mare, si chiama Mussie Zerai ed è candidato al nobel per la pace. Il titolo dell’articolo che ne parla dice: «Ecco chi organizza gli sbarchi». È un po’ come dire che il 118 organizza gli incidenti stradali, gli infarti, i parti prematuri. Questa è malafede, cattiva coscienza, pessimo giornalismo. È un sistema velenoso che si insinua e che produce danni incalcolabili. Produce odio, soprattutto.
Qualche giorno fa a Lamezia Terme il centro di accoglienza per minori non accompagnati è stato assaltato da energumeni di Casapound, dopo che si era sparsa la notizia dell’aggressione e dello stupro di un anziano (ce ne siamo occupati qui, ndr). La notizia era falsa, ma il rischio linciaggio non lo era affatto. È l’odio che si diffonde anche e forse soprattutto grazie alla cattiva informazione e che si mescola con altro, fa il gioco della criminalità nel caso di Lamezia: il centro assaltato si trova in un palazzo confiscato ad una famiglia mafiosa, don Giacomo Panizza che la gestisce subisce attentati da anni, a colpi di pistola e bombe carta. A chi giova l’odio? È una domanda che i giornalisti dovrebbero porsi sempre, soprattutto se l’odio è fondato sul nulla, sul sentito dire*.
Generalmente sono i numeri l’arma migliore di chi vuole seminare il panico. Si dice che siamo di fronte ad una quantità di arrivi senza precedenti e che l’Italia non ne può più. Poi si scopre che gli arrivi sono diminuiti rispetto allo scorso anno. Sono di meno. Devo ripeterlo ancora, gli arrivi sono diminuiti rispetto allo scorso anno. È difficile percepire immediatamente il significato di questa frase, perché il contesto nel quale viviamo, da ciò che si sente entrando in un bar a quello che ci dicono in tv e sui giornali, ci rimanda esattamente l’opposto. Ma i conti li fa il Viminale e non sono truccati. Sono conti reali di persone, uomini, donne e bambini arrivati in Italia e quasi sempre ripartiti verso il nord Europa.
L’invasione è uno stato d’animo che ci pervade piuttosto che la realtà. Ma questo dipende soprattutto dalla parole che si usano per raccontare quello che succede. La parola clandestino, i 40 euro al giorno, la sicurezza, ebola e la tubercolosi. Cosa raccontiamo quando parliamo di migrazione? E soprattutto perché lo facciamo, a chi giova? Perché sembra così strano pronunciare parole come «ne arrivano di meno» oppure frasi come «l’8,8 % della ricchezza nazionale è prodotta dal lavoro di due milioni e mezzo di stranieri». È importante imparare a parlare diversamente, è importante contrapporre i fatti, la logica e il buon giornalismo alla propaganda. È importante fermarla la paura, invece che diventarne strumento.
* A tale proposito consigliamo la lettura del test sull’hate speech in cinque punti realizzato dall’Ethical Journalism Network e rivolto ai giornalisti. Per consultarlo in italiano cliccare qui.
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