di Marco Benedettelli su Vita
Ora la loro vita riparte da Ancona, sopra il porto della città, fra i vicoli dove si affaccia la loro nuova casa. Negli ultimi dieci anni madre, padre e i cinque figli della famiglia Al Aktaa hanno vissuto da profughi in Giordania, prima nel campo di Zaatari, e poi in una casa nei suoi pressi. Vengono da Homs in Siria, una città devastata che oggi non esiste più, fuggono lontano “dalle cose orribili che abbiamo visto, che non si riescono nemmeno a raccontare”.
Ad accogliere gli Al Aktaa ad Ancona è la Caritas diocesana grazie “Corridoi umanitari”, progetto in piedi dal 2016 che consente ai profughi di arrivare in Italia in modo sicuro e coi documenti in regola, senza rischiare la vita in mare aperto o lungo la rotta balcanica. La famiglia Al Aktaa è atterrata il 26 maggio a Fiumicino, da quel giorno vive a Casa don Gioia, un appartamento all’interno del Centro Giovanni Paolo II, dove si trova il Centro di Ascolto Caritas, in via Podesti, nell’antico quartiere di Capodimonte, ad Ancona. Tanti sono i sentimenti che affiorano dalle loro parole, la gioia e la speranza innanzitutto, grande e sconfinata. E assieme si agita l’apprensione per il futuro, da costruire in Italia pezzo per pezzo. Huda, la figlia di 19 anni, la più grande, ripete piena di forza: “Sono grata all’Italia che mi ha accolto e voglio fare del mio meglio, voglio trovare un lavoro per restituire il bene che ho ricevuto”. La famiglia Al Aktaa passa le giornate immersa nello studio dell’italiano, seguita da tutor e mediatori linguistici della Caritas. “È difficile per noi questa nuova lingua, le parole sono così distanti dall’arabo”, racconta il padre Hussam, 47 anni, che a Homs prima delle bombe aveva un vestito di negozi nel sud della città, il mercato storico.
“Ora il più grande desiderio è che i nostri figli riescano a studiare in Italia”, ripete assieme alla moglie Wardeh, 36 anni. Mohamad, il maschio di 10 anni, e Malak la sorella di 12, erano piccolissimi quando sono iniziati i bombardamenti a Homs, l’infanzia l’hanno attraversata nella Siria in fiamme e tra campi profughi nel deserto giordano. Con loro ci sono le sorelle più grandi Nour, Rasha e Huda, di 15, 17 e 19 anni. “Il progetto di accoglienza dura 12 mesi, ma al termine del percorso non li lasceremo certo soli. Ci vorrà tempo perché si ambientino – racconta Stefania Papa, coordinatrice Caritas del progetto Corridoi umanitari – Stiamo provvedendo ai documenti, alla iscrizione a scuola, alle tessere sanitarie. Hanno iniziato il ciclo dei vaccini anticovid. C’è tanto da fare”. Grande è anche la solidarietà attorno, alcune famiglie anconetane si sono offerte per stare vicino agli Al Aktaa e nel ruolo di tutor li aiutano a fare la spesa, li guidano in città così da favorire la loro inclusione nella comunità cittadina. Il nucleo familiare siriano ora si avvale di un permesso di soggiorno di richiesta protezione internazionale, è in attesa di ricevere la risposta della Commissione territoriale della Prefettura.
In un’aula del Centro Giovanni Paolo II, padre, madre e figli tratteggiano la loro storia e ripetono che ci vorrebbe una vita per raccontare tutto quello che hanno vissuto, gli anni trascorsi da profughi in Giordania e poi ancora, andando a ritroso nel tempo, lo scoppio della guerra in Siria. “In Giordania è stata durissima – ricorda il padre Hussam – Abitavano in una casa in affitto non lontano dal campo profughi di Zaatari. Si andava avanti un po’ con gli aiuti dell’Unhcr (Agenzia ONU per i Rifugiati, ndr), un po’ con le donazioni e poi col denaro che riuscivo a guadagnare lavorando in una piccola azienda di tostatura di caffè”. In Giordania il cruccio più grande per papà Hussam e la moglie Wardeh era sul futuro dei figli, la loro istruzione.
Ora sperano che in Italia si torni a una maggiore solidità: “A scuola hanno patito molto, erano emarginati, discriminati. C’era un sentimento di chiusura a Zaatari verso noi Siriani, ci tenevano da parte, le autorità non volevano che ci integrassimo. Le nostre figlie erano mandate in classi speciali per Siriani, finché la preside si è rifiutata di iscrivere il nostro piccolo. Ci siamo visti costretti a mandare tutti e cinque in scuole private, sempre nei pressi di Zaatari. Abbiamo eroso ogni nostro risparmio, e poi c’erano le spese per vivere, per sostenere le nostre cure mediche”. Appena varcato il confine tra Siria e Giordania la famiglia per un periodo aveva soggiornato proprio all’interno del campo di Zaatari, una distesa di baracche in lamiera con circa 80mila profughi e dove ancora vivono dei loro parenti, fuoriusciti anche essi da Homs. “Là era impossibile stare, la pressione era incredibile e ci controllavano tutto il tempo”, ricordano. Ma la Sira era ormai lontana e perduta. Hussam mostra al cellulare le immagini della sua città, una landa desolata di macerie incendiate e palazzoni scheletrici vuoti e senza vita. “Homs è un fantasma. È successo tutto all’improvviso, dieci anni fa. Ci hanno attaccato perché sunniti, le truppe di Bashar al-Assad un giorno hanno iniziato a bombardare e tutto è finito. La città è piombata nel caos, all’inizio era solo una guerriglia disordinata, poi ho visto settimana dopo settimana i vari schieramenti formarsi. I sostenitori di Bashar hanno iniziato a presidiare le strade, a fare posti di blocco, si sono organizzati come gruppi Shabīḥa e sono diventati uno strumento della repressione filogovernativa – continua a ricordare – ci derubavano, ci attaccavano coi razzi, ci entravano in casa e rubavano tutto, strappando anche i cavi elettrici negli appartamenti abbandonati. Chi non aveva denaro da dare agli aguzzini, era malmenato e torturato in modo atroce. Cosparso di marmellate, veniva lasciato a patire le punture di insetti per la strada.
Contemporaneamente a Homs si formava l’Esercito libero siriano, il al-jaysh al-sūrī al-ḥurr, contro le forze armate siriane e il governo di Bashar al-Assad. E la guerra civile divampava sempre più. Chi voleva rimanere a combattere è rimasto. Noi, coi nostri figli piccoli, abbiamo cercato rifugio prima in campagna, di villaggio sunnita in villaggio, e poi quando sono arrivate le bombe anche là abbiamo attraversato la frontiera per la Giordania. Era il 2011. Così è iniziata la nostra vita da espatriati e rifugiati a Zaatari, è durata 10 anni e quando l’Unhcr ci ha proposto di partire, non ci abbiamo pensato due volte, saremmo andati ovunque, dopo tutta la violenza che ci è passata davanti agli occhi”. Grazie ai Corridoi umanitari arrivano ogni anno in Italia circa 500 profughi da Medio Oriente e Corno d’Africa. Il progetto vede in campo diverse realtà, Cei-Caritas, Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese. Simone Breccia, direttore di Caritas diocesana Ancona e Osimo, spiega: “L’inclusione della famiglia Al Aktaa si sostiene grazie ai fondi donati con l’8×1000. Nasce dall’attenzione della Caritas per gli stranieri, nel segno dello slogan ‘Liberi di partire, liberi di restare’. I corridoi umanitari sono un progetto di nicchia, ma importante perché apre la strada ai profughi nel segno della sicurezza e della legalità. La famiglia accolta era in una condizione di migrazioni forzata da tanti anni. Gli è stato permesso di arrivare senza affrontare nessun viaggio della disperazione, e di restare in Italia guardando al futuro con dignità”.
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