A cura di Oxfam Italia
Mentre cala in tutto il mondo il numero di contagi, in Africa dove sono immani le difficoltà di tracciamento dei nuovi casi, molti paesi stanno affrontando la terza ondata della pandemia senza essere minimamente preparati. Basti pensare che solo nell’ultima settimana al contrario del resto del mondo l’incidenza di nuovi contagi registrati è cresciuta del 33% ogni 100 mila abitanti, con un +42% di mortalità per un totale di quasi 180 mila nuove persone infette, che sono certamente sottostimate a causa delle difficoltà di tracciamento e diagnosi.
È la denuncia lanciata oggi da Oxfam e EMERGENCY, attraverso la testimonianza diretta dei propri operatori sul campo in due paesi allo stremo come Uganda e Sudan.
“Dopo la prima ondata avevamo tirato un sospiro di sollievo, ma ora sta accadendo ciò che temevamo: il Covid-19 è esploso in Africa, investendo i fragili sistemi sanitari dei Paesi dove lavoriamo. Il continente sta registrando circa un milione di nuove infezioni ogni 68 giorni. Noi che viviamo qui vediamo gli effetti dell’egoismo dei Paesi ricchi che non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per avviare una campagna vaccinale in grado di arginare realmente il virus. E ora la situazione è drammatica”. Così Giacomo Menaldo, Country director di EMERGENCY in Uganda e Costanza Barucci, coordinatrice di progetto di Oxfam Italia in Sudan, raccontano la realtà che si trovano davanti agli occhi ogni giorno.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), le varianti del Covid-19, stanno infatti “amplificando e accelerando” la nuova ondata e, senza un adeguato aumento nella fornitura di vaccini, il continente non sarà in grado di arginarne la diffusione. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha sottolineato che, senza l’aiuto internazionale, nel prossimo futuro l’Africa sub-sahariana rischia di essere piegata da continue nuove ondate di infezioni, paralizzando investimenti, produttività e crescita economica.
“In Uganda stiamo rivivendo la situazione di marzo 2020 in Europa: allora i grandi ospedali nazionali erano del tutto impreparati a una ospedalizzazione di massa; oggi in Uganda gli ospedali non hanno ossigeno sufficiente per i pazienti e hanno difficoltà a implementare norme preventive e protettive per lo staff sanitario, che purtroppo sta registrando un aumento di contagi – racconta Giacomo Menaldo, Country director di EMERGENCY in Uganda – Il tutto si cala in una infrastruttura sanitaria più debole rispetto agli standard europei. La situazione è così seria che lo scorso 18 giugno il presidente Musuveni ha deciso di emanare nuove regole per un lockdown più restrittivo, inasprendo anche le sanzioni per i trasgressori.”
EMERGENCY è testimone diretto dell’aggravarsi della situazione in Uganda, dove ad aprile ha aperto un Centro di chirurgia pediatrica sulle righe del lago Vittoria.
Con una media di 816 nuovi positivi al giorno, l’Uganda è stato per settimane il quinto Paese africano con il maggior numero di nuove infezioni quotidiane. Nel giro di un mese i nuovi contagi settimanali sono aumentati di quasi trenta volte, passando da 366 nella settimana del 10 maggio a un picco di 9926 in quella del 14 giugno. Sono stati finora riportati più di 79.977 casi totali e 1.023 morti, ma i numeri sono probabilmente sottostimati a causa della limitata capacità delle strutture sanitarie di primo livello di fare una campagna di test su larga scala.
Per cercare di mantenere la trasmissione sotto controllo, il governo ha imposto un nuovo lockdown parziale di 42 giorni in cui scuole, luoghi di preghiera e mercati rimarranno chiusi, ha vietato ogni spostamento tra distretti, effettuato sia con veicoli pubblici che privati, e ha ripristinato il coprifuoco serale a partire dalle ore 19.
“Purtroppo è già scattata anche la corsa al profitto della sanità privata, con aziende, anche straniere, che hanno trasformato interi hotel in centri Covid a cui è possibile accedere solo a seguito di lauti pagamenti: abbiamo letto anche di parcelle fino a 3.000 dollari pagate dai pazienti all’ammissione,(6)” – prosegue Menaldo.
Dall’inizio della crisi, EMERGENCY ha adottato in tutte le sue strutture sanitarie protocolli di controllo delle infezioni, che includono la formazione del personale, la compartimentazione degli spazi e la separazione dei flussi sporco-pulito per ridurre il rischio di contagio. Al momento, al Centro di chirurgia pediatrica di Entebbe lavora uno staff internazionale che ha in parte già affrontato il Covid-19 in Italia durante la prima ondata.
“Abbiamo proposto al governo di condividere l’esperienza maturata nell’anno passato nella gestione del Covid e le conoscenze del nostro staff, mettendole a disposizione delle strutture pubbliche locali – spiega Menaldo – L’Uganda è stato uno dei primi paesi africani a imporre un lockdown molto duro all’inizio della pandemia, e sembrava che fossero riusciti a tenere sotto controllo il contagio. Ma la diffusione delle varianti beta e delta nella fascia più giovane e una campagna vaccinale rallentata in termini di approvvigionamento hanno fatto precipitare la situazione.”
La situazione resta molto critica anche in Sudan, paese incluso dalle Nazioni Unite nella lista dei 46 paesi meno sviluppati al mondo, dove solo nei centri urbani è possibile accedere alle poche strutture sanitarie disponibili quando la malattia è ormai in fase avanzata. Affrontare l’emergenza, tracciando e isolando i nuovi contagi per prevenire lo scoppio di focolai e fornire cure adeguate rappresenta una sfida complessa per tutti i sistemi sanitari, in particolar modo per quelli dei paesi a basso reddito con sistemi sanitari fragili.
I dati ufficiali in Sudan registrano 36.658 casi e poco più di 2.750 decessi dall’inizio della pandemia su 43,850 milioni (8) di abitanti (secondo le stime delle Nazioni Unite). Numeri parziali che non rispecchiano affatto la reale estensione del contagio, ma sono la riprova dell’impossibilità di effettuare il tracciamento, processare tamponi, eseguire diagnosi, raccogliere e analizzare i dati.È dunque più che mai fondamentale immunizzare con il vaccino la popolazione in tempi brevi.
“In tutto il Sudan al momento ci sono solo 110 ventilatori in 18 stati e la disponibilità di ossigeno copre solo una piccola parte delle crescenti necessità. – spiega Costanza Barucci, coordinatrice di progetto di Oxfam Italia in Sudan – La maggior parte dei centri di isolamento monitorati dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) in 15 stati non dispone di sistemi igienico-sanitari adeguati. Il personale medico e sanitario specializzato è mal distribuito e concentrato solo nelle principali aree urbane del Paese. Un’emergenza che dall’inizio della pandemia Oxfam ha cercato di fronteggiare formando il personale sanitario e fornendo kit- igienici nei centri sanitari di Port Sudan, sensibilizzando la cittadinanza sulle norme per prevenire il contagio. Ora più che mai serve intensificare la risposta a livello internazionale, prima di tutto vaccinando il maggior numero di persone possibile”.
I casi di Uganda e Sudan mettono a nudo tutta la debolezza dell’iniziativa Covax promossa dall’OMS per portare i vaccini contro il Covid-19 nei paesi poveri. All’Uganda sono state infatti destinate quasi 3,2 milioni di dosi, ma fino a oggi ne ha ricevute solo poco più di un milione (9), e ne ha somministrate 937.417: considerando che per ogni persona sono necessarie due dosi, significa che finora circa solo l’1% della popolazione ugandese è stata vaccinata.
In totale il Sudan ha invece richiesto 17 milioni di dosi di vaccino, per coprire con le due dosi necessarie 8,5 milioni di persone entro fine 2021. Al 30 giugno però erano state somministrate appena 677.957 dosi.
Ciò significa che nella migliore delle ipotesi, sulla base dei pochi dati disponibili, al momento poco più dello 1,5% della popolazione sudanese ha ricevuto la prima dose di vaccino e che se tutto andasse secondo i piani di Covax, entro l’anno sarebbe immunizzato poco più del 20%. Al momento in Africa è stato vaccinata appena il 2,6% della popolazione con almeno una dose, contro il 50,4% dei cittadini dell’Unione europea.
La People’s Vaccine Alliance (PVA), una coalizione mondiale di organizzazioni e attivisti che include premi Nobel, scienziati e leader religiosi e di cui sia EMERGENCY che Oxfam fanno parte, sostiene da tempo che la condivisione dei brevetti e del know-how sia l’unica soluzione per vaccinare l’intera popolazione mondiale e bloccare le varianti.
“La sospensione della proprietà intellettuale dei brevetti detenuti dai colossi farmaceutici sui vaccini Covid e il trasferimento di know-how, per renderne possibile la produzione direttamente nei paesi in via di sviluppo, aumentando le dosi disponibili a livello globale, resta l’unica vera strada per sconfiggere la pandemia. – concludono Sara Albiani, policy advisor sulla salute globale di Oxfam Italia e Rossella Miccio, Presidente di EMERGENCY – Il sistema di donazioni di dosi dai paesi ricchi ai paesi poveri e l’iniziativa Covax non fermeranno la pandemia e nel frattempo moriranno ancora centinaia di migliaia di persone. Per questo rilanciamo con forza l’appello all’Italia e all’Unione Europea a prendere posizione per rendere i vaccini un bene pubblico globale seguendo l’esempio di Stati Uniti e Francia e supportando la sospensione dei brevetti richiesta in seno all’Organizzazione mondiale del commercio: se non verrà raggiunto almeno il 60% di immunizzazione a livello globale entro la fine dell’anno, le varianti del virus potrebbero prendere il sopravvento”.
Foto in copertina di Oxfam Italia
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