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Crisi rifugiati. The Guardian: cambiare il modo in cui li vediamo è il punto di partenza

In che modo l’immagine che abbiamo dei rifugiati cambia il futuro di questa crisi? Una riflessione del Guardian

Traduciamo e pubblichiamo un articolo scritto da Ben Doherty per il quotidiano britannico The Guardian. Una riflessione sul ruolo che i media hanno nel determinare l’immagine dei rifugiati agli occhi dell’opinione pubblica e su come questa influenzi il futuro delle crisi umanitarie che vedono protagonisti i richiedenti asilo.

Per risolvere la crisi dei rifugiati si inizia dal cambiare il modo in cui li vediamo

Articolo originale di Ben Doherty

Le persone si spostano. La storia dell’umanità è una storia di migrazioni. Fin dal primo spostamento dell’homo erectus fuori dall’Africa attraverso l’Eurasia, l’umanità ha avuto ragione di viaggiare da un luogo all’altro. Alcune volte lo spostamento è ordinato, pianificato e pacifico. Ma altrettanto spesso è disperato, una violenta espulsione di un alto numero di persone che scappano da persecuzione, guerra, carestie o altri disastri naturali.

Ovunque nel corso della storia comunità, sistemi di governo e civiltà sono state distrutte, soppiantate o arricchite dall’ingresso di persone appartenenti a culture e etnie straniere. Le persone sono sempre migrate, oggi tuttavia sono allontanati contro la loro volontà dalle proprie case più individui di quanto non sia mai accaduto dalla fine della seconda guerra mondiale.

È uno sfollamento sostenuto: in quattro anni di guerra oltre 3 milioni di siriani sono già stati costretti a restare fuori dal proprio paese; 130 mila appartenenti alle minoranze etniche del Burma sono raggruppati permanentemente in campi ai confini tailandesi; più di un milione di afgani vive, con diverse tipologie di autorizzazione, in Pakistan. Alcuni sono stati qui per oltre 30 anni, aspettando l’occasione di tornare a casa.

Ma le due vicine crisi nel Mediterraneo e nell’Andamano hanno portato la questione dei richiedenti asilo che arrivano via mare dall’astratto – una discussione sui numeri, sul racket del traffico umano, sui cosiddetti fattori push-and-pull – al personale.

Immagini di imbarcazioni piene di richiedenti asilo rohingya disperati, che implorano di essere autorizzati ad attraccare in qualsiasi posto, o la vista di una donna eritrea che viene tratta in salvo dalle onde di Rodi da un soldato greco, hanno trasformato i richiedenti asilo da una massa anonima e indifferenziata in persone. E questa concomitanza enfatizza il fatto che la questione dell’immigrazione irregolare non sia un problema europeo o del sud-est asiatico. Non appartiene ai popoli poveri o a quelli ricchi. È una questione di rilevanza mondiale.

Per i media la questione dell’immigrazione irregolare è per sua natura difficile da raccontare. Le persone che intraprendono questi viaggi spesso arrivano da zone di guerra o da situazioni di persecuzione. Alcuni possono cercare di nascondere le vere ragioni della loro migrazione, per il loro bene o per altri motivi. Altri sono abbandonati in barche in mezzo all’oceano, quasi inaccessibili, oppure sono incarcerati, o conducono un’esistenza clandestina nei paesi raggiunti.

Come risultato le voci meno ascoltate nel dibattito sulla migrazione sono spesso quelle dei migranti stessi. Essi vengono definiti, invece, dal linguaggio usato da altri per descriverli e la loro immagine – e una più ampia comprensione di chi essi siano – non è creata da loro, ma da altri.

I media hanno la responsabilità di raccontare la condizione di alcune delle persone più vulnerabili al mondo, una responsabilità non sempre tenuta in considerazione. Esistono delle eccezioni, ma i richiedenti asilo sono giudicati da alcuni come “vermi” e “scarafaggi” o definiti “sudici”, ” sporchi”, “senza soldi”.

La manipolazione retorica può essere anche più scaltra. Nel dibattito sui richiedenti asilo i governi possiedono un’influenza sproporzionata perché spesso detengono tutte le informazioni: quante persone arrivano e come, quali azioni sono state intraprese in alto mare. I politici usano globalmente il controllo dell’informazione per costruire un dibattito sugli “illegali”, sui “queue jumpers” o sui “sospetti terroristi”; costruzioni che sono spesso accettate senza critica, riprodotte e diffuse dai giornalisti. La falsa dicotomia che vede il “buon” rifugiato – che aspetta pazientemente in un campo per la sua ricollocazione che potrebbe non arrivare mai – opporsi al “cattivo” rifugiato, che tenta la sorte su una barca, amplifica la paura verso “l’ intruso”.

Al suo cuore, la tensione intrinseca al dibattito sui richiedenti asilo è un conflitto di diritti in competizione tra loro e di preoccupazioni sul tenere la situazione sotto controllo. Le nazioni hanno il diritto sovrano e i governi la responsabilità nei confronti dei cittadini di controllare i confini. Ma le persone che affrontano la persecuzione hanno il diritto di chiedere asilo e la natura del loro arrivo per legge non deve pregiudicare la loro richiesta o il trattamento che riceveranno.

L’immigrazione, quando controllata e ordinata, è meno impegnativa per i politici e il loro pubblico. Quando è disordinata e caotica – quando è percepita come “fuori controllo” – porta con sé la paura per ciò che non si conosce.

Non dovrebbero essere necessarie una tragedia come quella delle morti di centinaia di persone nel Mediterraneo o le barche cariche di richiedenti asilo affamati alla ricerca di un qualsiasi porto che li lasci attraccare per ispirare al mondo la ricerca di una soluzione a lungo termine che possa ridurre le possibilità che ciò accada ancora, l’individuazione di modi più sicuri e ordinati per consentire alle persone di emigrare.

Ma se niente cambia, niente cambierà e assisteremo a queste calamità ancora una volta.

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