“Crisi rifugiati”: così nel 2015, con l’intensificarsi dell’arrivo di rifugiati in Grecia, i media hanno iniziato a definire il fenomeno in corso. Ma ci troviamo davvero di fronte a una “crisi rifugiati”, oppure la crisi riguarda il modo in cui i media rappresentano i flussi migratori? O, per dirla in modo più diretto, l’etica giornalistica? A interrogarsi – e interrogarci – è Open democracy, che ha rilevato come, nello stesso anno in cui la definizione “crisi rifugiati” è stata diffusa, la copertura mediatica del fenomeno sia stata prevalentemente superficiale e decontestualizzata.
Tre gli eventi chiave del 2015 intorno ai quali è stata sviluppata l’analisi, che ha consentito di esaminare 1200 articoli pubblicati in otto paesi europei: l’accordo sulle quote dei rifugiati tra i leader europei stretto a luglio; la pubblicazione dell’immagine di Alan Kurdi tragicamente affogato a settembre; l’attacco terroristico di novembre.
Dallo studio è emerso come i rifugiati siano descritti prevalentemente sulla base della provenienza, citata nel 62% degli articoli. Appena il 35% distingue tra uomini e donne e solo ¼ ne individua l’età, appena il 7% include le professioni. Le opinioni dei rifugiati, inoltre, sono raramente e parzialmente rappresentate: la loro voce è presente solo nel 16% degli articoli. La contestualizzazione è altrettanto assente, così come pochi sono i punti di vista riportati.
Il risultato è una narrativa in cui i rifugiati vengono identificati come massa, come numeri, ai quali raramente è associata una personalità, una sorta di “anonimato dei rifugiati”, come lo definisce Open Democracy. Una rappresentazione che, secondo l’organizzazione, contribuisce al rafforzamento della percezione secondo cui i rifugiati appaiono come “gli altri”.
Le conseguenze in chiave negativa dell’arrivo dei rifugiati compaiono in due terzi delle storie analizzate e nel 59% delle stesse non vi è alcuna menzione degli effetti positivi. Una narrativa ansiogena “problematica”, spiega Open Democracy, che non si basa su dati empirici o sull’analisi del rapporto causa-effetto e che è stata cruciale nel diffondere insicurezza e timori.
A essere interessante è, soprattutto, un altro elemento rilevato dall’organizzazione: mentre le conseguenze “negative” descritte dai media riguardano la geopolitica, l’economia e la cultura e sono quindi associate a qualcosa che, agli occhi del lettore, appare tangibile, quelle positive quando presenti vanno solo raramente oltre l'”imperativo morale dell’empatia”, fermandosi quindi alla sfera della moralità e a un livello intangibile.
La copertura della stampa europea relativa alla crisi è dominata dalla narrativa della tragedia e degli sbarchi. L’attenzione dei media, stando a quanto osservato da Open Democracy, è stata focalizzata alternativamente su misure umanitarie e sicurezza. In base alla ricerca, la stampa che riflette posizioni di centro-sinistra e di sinistra ha enfatizzato le prime (iniziative di solidarietà e accoglienza, posizioni di apertura ecc.), mentre quella di orientamento opposto ha dedicato maggiore attenzione alle operazioni di controllo delle frontiere (respingimenti, chiusura delle frontiere ecc.). Inoltre nei media dei paesi dell’Europa occidentale, rileva lo studio, avrebbe prevalso il frame della sicurezza; al contrario in quelli dell’Est il racconto delle iniziative umanitarie sarebbe riuscito a trovare ampio spazio.
In generale, Open Democracy ha osservato un passaggio significativo dalla narrativa delle misure umanitarie verso quella delle misure di sicurezza; a interrompere tale tendenza la pubblicazione della foto di Aylan, che ha riportato temporaneamente la rappresentazione dei flussi migratori verso un racconto più focalizzato sugli aspetti umanitari. Dalla sfera emotiva, dunque, la stampa sarebbe passata in modo progressivo verso una rappresentazione più fredda, dove a dominare non è più il fattore umano, ma le politiche nazionali e internazionali.
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