Di Antonella Sinopoli su Voci Globali
Deportazioni. Dove l’umanità vale niente. Dove l’uomo vale denaro. 160 milioni di dollari sarà la cifra pagata per quel carico di merce che arriverà a breve in Rwanda spedita dalla Gran Bretagna. Migranti, rifugiati anzi, provenienti per la maggior parte da Sudan, Eritrea, Afghanistan, Iran e Iraq.
Non propriamente Paesi in cui andare a fare una vacanza o in cui vorresti vivere. Paesi dove sono in corso conflitti, a volte decennali, dove il pericolo di morire (di violenza, mancanza di lavoro, stenti) è reale, dove le crisi umanitarie fanno moltiplicare gli allarmi e le richieste di donazioni da parte degli organismi internazionali, la FAO, l’UNHCR per esempio. Bracci operativi di un sistema che si vorrebbe umanitario che però non ha nessuna forza di far smettere quanto accade. Che sta a guardare.
Come è accaduto per Mohamed Mahmoud Abdel Aziz. Proveniva dal Darfur, non proprio un bel posto dove crescere. Il fatto è che Mohamed non crescerà, non diventerà un uomo adulto. Meglio perderla la vita, meglio appendersi con una corda al collo, che continuare a farsi martoriare, picchiare, insultare, dimenticare.
Come era stato dimenticato da chi, appunto, avrebbe dovuto prendere in carico il suo caso e portarlo via da quel centro di detenzione – Ain Zara a Tripoli – dove lui e moltissimi altri conducevano una vita di abusi. E quanto puoi resistere… Quanto può resistere, non tanto il tuo corpo giovane, certo privato, ma quanto può resistere uno spirito piegato. E con quella delusione nel cuore di chi ha visto solo male.
Ma, the show must go on. Uno show, sì, crudele e ripetuto. Anzi, qualche modifica, qualche peggioramento qua e là. Chi sono le donne e gli uomini che verranno “trasferiti” in terra africana? A dire il vero importa poco. Sono clandestini, questo è quanto. Che si son presi la briga di attraversare la Manica – e già per arrivare fin lì quanti mesi, a volte anni, quante privazioni, quante violenze, quanti altri visti morire – per arrivare in un Paese civile, dove le leggi funzionano e anche i diritti umani sono una garanzia. Sbagliato. Essere arrivati fin lì non è garanzia di una vita diversa, finalmente.
Un migrante – quelli provenienti dai Sud del Mondo – un rifugiato, non è mai al sicuro in quest’Occidente malato e sbagliato. Come osano queste persone sperare che i diritti siano uguali per tutti, che mettere in salvo la pelle e la famiglia sia un’azione normale (anzi forse eroica), che un mondo diverso da qualche parte deve pur esserci.
Sarà in Rwanda questa vita diversa, assicura il ministero degli Interni britannico che anzi si è premurato di far sapere che questi “deportati” potranno rifarsi una nuova vita in sicurezza nel Paese dove stanno per essere spediti (i primi trasferimenti cominceranno il 14 giugno). Una delle (tante) cose assurde delle politiche europee sui migranti è che si continua ad insistere nel chiamarli “irregolari”.
Ma quanti di loro, per esempio, hanno già famiglie all’estero e potrebbero raggiungerle se solo avessero accesso ai visti che invece restano preclusi a chi ha passaporti che non valgono niente. Passaporti che sono carta straccia perché non ti assicurano il diritto di viaggiare, di emigrare. Le restrizioni e gli abusi istituzionali nascono a monte, con una parte del mondo che decide le sorti di tutti.
Altra cosa ridicola sono le dichiarazioni, false nei fatti, che tali trasferimenti (deportazioni) siano necessari per fornire un deterrente al traffico e ai trafficanti di esseri umani. Forse un deterrente sarebbe garantire davvero stessi diritti a tutti nelle stesse condizioni.
E cosa dicono dall’Africa? Quali voci si alzano per urlare, o almeno commentare, quanto sta accadendo? Silenzio, perlopiù. Ma non tutti. Come Mondli Makhania, direttore di City Press che si domanda dove sia l’Unione Africana in questo momento e parla di razzismo neanche ben mascherato insito nell’accordo tra Rwanda e Gran Bretagna. Mentre l’esperto dei diritti umani, Abdul Tejn Cole dalle pagine di Africa is a Country parla di “devil deal” e ricorda i brutti esempi forniti dal presidente Paul Kagame riguardo al rispetto e applicazione dei diritti umani.
Ma torniamo a Mohamed Aziz e a quell’immagine di lui che oscilla da una trave. Pare ci sia rimasto 24 ore prima di essere tirato giù. Sui social i ligi amministratori il cui compito è verificare che non vengano pubblicate foto di violenza o che possano turbare gli utenti si sono affrettati a rimuovere quell’immagine.
Non sarà così per quella che ritrae Valerie, la giovane ucraina fotografata con il suo bell’abito rosso, quello con cui avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia di diploma. E invece quella cerimonia non si terrà perché la sua scuola è andata distrutta dai bombardamenti russi. È una foto bella quella che ritrae Valerie, bella nonostante (e forse a causa) della sua tragicità.
Quella di Mohamed, fatta da un telefonino, è invece brutta, orribile. Mohamed un vestito bello non lo ha mai avuto, solo stracci. A scuola non ci è andato probabilmente (era impegnato a sopravvivere e a viaggiare verso la salvezza – no, verso la morte). Nessuno gli ha mandato aiuti in abiti, coperte, latte, beni di prima necessità.
Non ha zie (come quella di Valerie che ha diffuso la foto sui social) che si preoccuperanno per lui. O meglio, chissà quando e se sapranno mai che il loro nipote, figlio, fratello, amico è morto in quel modo. Non ha avuto l’occasione di fuggire dal nuovo orrore in cui era scivolato. La realtà – cruda ed evidente – è che anche nelle guerre (sempre atroci e insopportabili) c’è chi conserva il diritto alla pietà, alla solidarietà, alle azioni di singoli cittadini, organizzazioni e Governi che cercano di alleviare le conseguenze della guerra, le conseguenze del divenire un rifugiato.
C’è chi conserva questi diritti. E c’è chi questi diritti non li ha mai avuti.