«Fa bene a fare il ministro, ma forse lo dovrebbe fare nel suo Paese. È anche lei a far sognare l’America a tanti clandestini che arrivano qui. Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango».
Quando nel 2013 il vicepresidente del Senato Roberto Caldaroli pronunciò questa frase riferendosi all’allora ministro dell’Integrazione, Cécile Kyenge – italiana e nera, l’Italia si era indignata.
“Uscita razzista”, “affermazione razzista”, “dichiarazione razzista”: in questi termini l’episodio aveva fatto il giro del mondo arrivando alla BBC, Independent, Libération, Der Spiegel, Die Welt, Chicago Tribune, Sidney Morning Herald – solo per citarne alcuni. La notizia aveva superato i confini nazionali facendoci vergognare; questo, almeno, sembrava essere il sentimento diffuso, così come lo sdegno sembrava non lasciare spazio ai dubbi sulla componente razzista presente nelle parole pronunciate dal politico leghista.
Cécile Kyenge, oggi europarlamentare
Due anni dopo lo scenario è diverso. Il Senato ieri ha votato a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Roberto Calderoli per diffamazione, respingendo l’aggravante di istigazione all’odio razziale e invocando l’insindacabilità delle dichiarazioni di Calderoli «in quanto opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni».
«Avrei voluto che, nella sede deputata, il tribunale, si stabilisse se c’è un confine tra un dibattito pubblico responsabile e l’uso irresponsabile di parole che lasciano un segno nella società. Queste parole di Calderoli sono state inequivocabilmente razziste, varcavano il limite del rispetto della dignità della persona, in ragione del mie sembianze e del colore della mia pelle. Se non è razzista dare dell’orango ad una donna nera, allora tutto è possibile, con buona pace delle conseguenze, vuoi dire che abbiamo smarrito il senso delle parole», scrive oggi Cécile Kyenge.
Ci uniamo a lei, esprimendo la nostra solidarietà, nel sostenere che se anche nel paragonare le sembianze di un nero a quelle di una scimmia, insulto razzista per eccellenza, non viene riconosciuto l’elemento delle discriminazione razziale neppure dalle istituzioni, allora il limite tra quella che è un’opinione espressa in modo civile e una dichiarazione che lede la dignità della persona è pericolosamente confuso.
Dietro alla votazione in Senato che ha dato questo esito vi sono equilibri e strategie politiche che non ci interessa analizzare; ci interessa invece capire dove è andato a finire quello sdegno che aveva accomunato tanti, nel 2013. Come mai di fronte a un simile epilogo solo pochi prendono posizione e ancora meno esprimono sdegno? Quella “uscita razzista” in cosa si è trasformata agli occhi di media e cittadini? Perché nessuno alza la voce per ricordare che dichiarazioni simili, specie se attribuibili a coloro che ricoprono cariche istituzionali, dovrebbero essere considerate intollerabili? Dove sono l’imbarazzo e la vergogna?
Stiamo forse diventando assuefatti a un modo di comunicare sempre più violento? Le modalità in cui viene espressa un’opinione, complice il web, diventano giorno dopo giorno meno civili, più cariche di odio, di rabbia.
Per questo torniamo a dire #nohatespeech e a ribadire la necessità, per i media, di non tollerare i discorsi d’odio, affinché questa deriva si arresti.
Se vuoi dire anche tu #nohatespeech firma qui.
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