Ancora invisibili nell’informazione. A trent’anni dalle «Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana» di Alma Sabatini il giornalismo, con poche eccezioni, continua a definire le donne al maschile: può essere incinta, ma resta ministro. Per rispondere a questa condizione l’associazione Gi.U.Li.A. (Giornaliste unite libere e autonome) ha realizzato una guida, affinché venga colmata questa lacuna nell’uso che l’informazione fa della lingua italiana.
«Donne, grammatica e media», questo il nome del volume che sarà presentato l’11 luglio, alle 10.30, presso la Camera dei Deputati. La guida riparte dalle regole della grammatica per offrire indicazioni utili e semplici pensati, in particolare, per i professionisti della comunicazione. Il linguaggio è il punto di partenza: la discriminazione di genere, infatti, continua a manifestarsi nel modo in cui i media descrivono le donne e lo fa non solo attraverso le immagini che vengono offerte del genere femminile, ma anche attraverso un uso scorretto della grammatica, raramente declinata al femminile.
Si può dire ministra? E ingegnera? Esiste il femminile di questore? È meglio avvocata o avvocatessa? Forse è preferibile donna sindaco o donna ingegnere? E poi è proprio necessario usare sempre entrambe le forme, maschili e femminili, quando ci si riferisce a uomini e donne? A queste e ad altre domande pratiche la guida di Gi.U.Li.A risponde attraverso le parole di Cecilia Robustelli, autrice del volume e docente di Linguistica italiana. Assieme a lei in questo sforzo anche Nicoletta Maraschio, presidente onoraria dell’Accademia della Crusca, che ha curato la prefazione.
Come ricorda Gi.U.Li.A: «Il femminile esiste, basta usarlo».
Anna Meli
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