Di Antonella Sinopoli su Valigia Blu
Che la propaganda abbia sempre avuto un ruolo rilevante in guerre, rovesciamenti e affermazioni di potere – politico, religioso, anche economico – è cosa risaputa. Una regola del gioco. Una strategia al pari di qualunque altra. Una strategia che oggi, grazie ai social media, ha riscontri (e danni) immediati. E propaganda molto spesso fa rima con fake news, ovviamente. Due grandi crisi, in corso nel continente africano, stanno dando la misura di quanto la complessità delle situazioni debba anche fare i conti con la disinformazione e l’estrema faziosità con cui spesso le notizie vengono raccolte e scremate.
Parliamo del Sudan – dove il 25 ottobre scorso il generale Abdel Fattah al-Burhan ha dichiarato lo stato di emergenza e dissolto il Governo transitorio (da lui stesso guidato) che a sua volta era stato insediato nel 2019 grazie ad una sollevazione popolare e successivo colpo di Stato militare, che aveva cacciato via il presidente/dittatore Omar al-Bashir. E parliamo dell’Etiopia – dove da un anno è corso un conflitto civile che vede contrapposti il Governo centrale del primo ministro Abiy Ahmed e il Tigray People’s Liberation Front(TPLF). Per anni il TPLF aveva di fatto guidato una coalizione che teneva insieme tigrini, oromo e amhara, ed è stato a capo del Governo (alcuni dicono con pugno di ferro e nonostante sia un’etnia minoritaria). Una leadership che comunque avrebbe perso da quando Abiy Ahmed è al potere. In entrambi questi casi – quello del Sudan e quello dell’Etiopia – Internet, i social media ma anche i mainstream – stanno giocando un ruolo a volte pericoloso che sta esacerbando situazioni già assai critiche. E in entrambi i Paesi – come risulta da analisi e studi che vanno avanti da tempo – a influenzare l’opinione pubblica e agire sulla manipolazione dei fatti, sono spesso individui e realtà che si trovano fuori dal territorio, all’estero, quando non si tratta della stessa diaspora.
Cominciamo con il Sudan. Qui da tempo risulta in atto una vera e propria “disinformazione coordinata” condotta – diciamo così – in franchising (lo stesso, vedremo, sta avvenendo in Etiopia). Nel settembre 2021, un mese prima del colpo di Stato militare Facebook rimuoveva una rete di 116 pagine, 666 account utente, 69 gruppi e 92 account Instagram. Tutti collegati alla Rapid Support Forces (RSF), gruppo paramilitare che fa capo a militari sudanesi che hanno partecipato attivamente al golpe. Tutti “lavoravano” per promuovere l’RSF, amplificarne le dichiarazioni, spacciandosi spesso per (o manipolando notizie da) notiziari locali e indipendenti. Questa rete di account – ha fatto poi sapere Facebook – è stata rimossa per aver violato la politica contro “l’interferenza straniera”. In sostanza gli account privati e le pagine erano di fatto gestiti da amministratori con sede in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti.
A diffondere questa notizia è stato il Digital Forensic Research Lab (DFRLab) che sottolinea tra l’altro l’ambiguo atteggiamento dell’RSF nei giorni delle proteste di piazza nel 2019 per rimuovere il presidente/dittatore. Oggi il leader della RSF, Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemeti, è considerato l’uomo dietro il golpe del 25 ottobre (anche se in primo piano c’è Abdel Fattah al Burhan). Di lui si sa anche che controlla una bella fetta delle miniere d’oro del Paese e che fa affari con gli Emirati Arabi Uniti che pagano la “merce” in cash e senza tanti problemi. Per quanto riguarda invece il rapporto con l’Arabia Saudita non va dimenticato che per anni mercenari dell’RSF sono stati inviati in Yemen per combattere a fianco della coalizione di cui fanno parte Arabia Saudita ed EAU. Insomma, tutti sanno che Hemeti è un uomo ricco e potente. Che non dimentichiamo è anche l’uomo che ha terrorizzato il Darfur con i janjaweed. Era lui a capo delle milizie arabe che per anni hanno portato morte e distruzione nella parte occidentale e più povera del Paese. Farebbero capo ai suoi supporter, dentro, ma soprattutto fuori il Paese, quelle pagine social che lo indicano – addirittura – come la sola persona in grado di tenere in piedi la nazione e di garantire sicurezza alla popolazione.
Sempre secondo il DFRLab, nel Paese si sarebbe sviluppata negli anni una massiccia rete di disinformazione collegata all’oligarca e uomo d’affari russo Yevgeny Prigozhin e alla Russia Internet Research Agency. In questo caso pare che i canali social – molti dei quali rimossi – sarebbero stati gestiti a livello locale da cittadini sudanesi assunti dallo stesso Prigozhin. Si è parlato, in questo caso, di un metodo “franchising” con account falsi e replicati con nomi diversi. Molti dei post erano storie positive sulla Russia e sulla presenza di Prigozhin in Sudan. Nel 2019, inoltre, altre prove erano emerse circa pagine Facebook associate ad entità legate a Prigozhin e alla sua compagnia militare privata (mercenari senza scrupoli impegnati, tra l’altro in Siria e Libia), il famigerato Gruppo Wagner, dietro cui ci sarebbe l’ombra di Putin. Mentrealtre storie/post sottolineavano i benefici di una base militare russa a Port Sudan. Cosa che per il momento rimane ancora un’ipotesi lontana ma che preoccupa gli USA che ovviamente temono la presenza sempre più forte della Russia di Putin in un’area del continente africano così strategica. Non va dimenticato che gli USA hanno recentemente rimosso il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo e rimosso le sanzioni (anche se rimangono in atto per certi individui ed entità connessi al conflitto nel Darfur – come si legge nei documenti ufficiali) dopo che quest’ultimo ha dato assicurazione di lavorare ad una normalizzazione dei rapporti con Israele. Ma altri accordi informali potrebbero essere alla base di certe decisioni, accordi che appunto riguardano una diversa gestione dei rapporti tra Sudan e Russia che tenga conto degli interessi statunitensi. Nel complesso, la rete di propaganda tracciata in Sudan ha fatto risalire ad oltre 440.000 account – ha affermatoTessa Knight, una delle ricercatrici del laboratorio di ricerca digitale forense. Un intreccio di comunicazioni e di notizie modificate (o esaltate) in modo da agevolare parti in campo anche con l’ausilio di traduzioni fatte in modo approssimativo.
C’è poi da considerare un altro aspetto: la scarsa diffusione di Internet nel Paese: solo il 30.9% della popolazione (13,38 milioni di abitanti) usa la rete. Tutto ciò ha vari motivi: la debole connessione in molte parti del Paese, il costo eccessivo della navigazione e l’inaffidabilità della corrente elettrica. Restano così fuori dall’accesso alla rete e dai contatti con il resto del mondo, proprio coloro che avrebbero maggior bisogno di far sapere dall’interno cosa accade, senza mediazione. Quelle aree e fasce della popolazione sempre più isolate e a cui pochi hanno accesso per raccoglierne storie e testimonianze. È chiaro che, in questo modo, le narrative dominanti sono quelle di chi ha potere e lo usa per creare consenso da una parte e divisioni dall’altra. Narrative che creano confusione soprattutto quando vengono mostrate differenti versioni di uno stesso evento o quando la verifica di notizie trasmesse attraverso i social risulta difficile. Ed ecco che il lavoro della stampa diventa spesso quello di debunking. Ma mentre in Europa e nel resto del mondo si lavora spesso a tavolino e con i mezzi della tecnologia per interpretare e analizzare notizie filtrate dai social, nel Paese i giornalisti non se la passano bene. Il 2020 era stato definito da Reporters sans Frontières un anno di transizione, occorreva vedere cosa sarebbe accaduto dopo la caduta di al-Bashir, le sue censure, il suo controllo. Ma le cose non sono andate bene e la libertà di stampa nel Paese è sotto assedio e di molti giornalisti arrestati non si conosce la sorte.
Da tempo il Sudanese Journalists Network – che lo scorso anno era stato premiato con il Press Freedom Award proprio da RSF per lo sforzo a difesa della libertà di stampa e di espressione – non posta nulla su Twitter. I suoi comunicati e notizie sono inviati su Dabanga, radio tv online esiliata nei Paesi Bassi, le cui fonti comunicano soprattutto attraverso whatsapp. Ed è su queste stesse pagine che la Sudanese Journalists Association for Human Rights aveva inviato un appello alle autorità per ripristinare l’uso di Internet bloccato nelle ore immediatamente successive al colpo di Stato. Interessante notare che il Sudanese Journalists Network starebbe anche comunicando attraverso contatti esterni al Paese. Da un account privato del Cairo, per esempio, è stata diffusa una notizia – che si dice appunto riferita a un comunicato dell’SJN – che il golpe sarebbe stato programmato solo dagli elementi islamici all’interno delle Forze armate, cosa che ripeterebbe lo scenario del 1989, quel colpo di Stato che portò al Governo Omar al-Bashir e ai suoi 30 anni di potere. Insomma, tutto questo per sottolineare la difficoltà di seguire e interpretare nel giusto modo eventi così complessi e che richiedono conoscenze specifiche del territorio, della lingua (delle lingue), della vita sociale e della storia, anche non recente, dei Paesi in questione.
L’Africa è sempre stato un continente “misterioso”, interpretato e raccontato troppo spesso attraverso lenti distorte. E non si può nascondere che anche il giornalismo italiano a volte fatica a districarsi tra notizie di cronaca che non possono (o non dovrebbero) essere trattate senza conoscenze specifiche, senza background. La mancanza di corrispondenti in loco – nella maggior parte dei casi – fa sì che quello che si legge e dice sulla stampa italiana sia frutto di ricerche online, di fonti secondarie, di traduzioni approssimative, ma anche di pregiudizi e prese di posizione. Per esempio, e passiamo al caso Etiopia, in quelle situazioni in cui la componente etnica gioca un ruolo molto rilevante, anche nell’informazione. (Parlare di componete etnica non è necessariamente un retaggio colonialista, il fattore etnico incide – spesso profondamente – sulle relazioni dei popoli africani e questo non vuol dire ovviamente che si manifestino sempre conflitti. Anzi, la regola è la convivenza pacifica, l’intreccio tra culture, matrimoni misti, Parlamenti in cui tutte le componenti sono rappresentate).
Ma prima di parlare di informazione dobbiamo parlare di disinformazione. In questo caso, ancor più che in quello sudanese alcuni studi hanno mostrato quel fenomeno definito “disinformazione coordinata” cui è stato dato un nome specifico “click-to-tweet”. Si tratta, in sostanza, di campagne organizzate, sia dalla parte a favore del Governo di Abiy che da quello dei cosiddetti ribelli del TPLF il cui obiettivo è screditare l’altro e supportare il proprio operato. Dietro queste campagne ci sarebbero anche i membri della diaspora sparsa in ogni parte del mondo. Un modo per diffondere posizioni e narrative contrastanti. Secondo l’indagine, account twitter a sostegno del Governo sarebbero stati amplificati dai membri dello stesso esecutivo. E prima delle elezioni del giugno scorso Facebook aveva individuato e rimosso un network di account fake collegati all’Information Network Security Agency. Network che prendeva di mira l’opposizione, tra gli altri l’Oromo Liberation Front, l’Ethiopian Democratic Party e, naturalmente, il Tigray People’s Liberation Front. Secondo gli analisti del social media circa 1,1 milioni di account seguivano una o più pagine di tale network. Inoltre, la rete ha speso circa 6.200 dollari in annunci sulle piattaforme, cifra appunto pagata in dollari statunitensi.
Ovviamente tante sono state anche le iniziative dei tigrini e dei loro sostenitori per dare voce e spazio alla propria lotta. Citiamo il sito Stand with Tigray, nato per denunciare il genocidio e la fame indotta dal conflitto nell’area settentrionale del Paese, che dà informazioni su come lanciare campagne sui social – con quali hashtag e cosa scrivere – e che pare sia stato bloccato qualche settimana fa. O anche Omna Tigray con le sue campagne e petizioni moltiplicate e amplificate proprio con la tecnica del “click-to-tweet” con i contenuti tradotti nella maggior parte delle lingue europee. Iniziative che vengono anche dal fronte opposto. Come il Global Ethiopian Advocacy Nexus (GLEAN), anche in questo caso con campagne ed istruzioni mirate, anche a specifici soggetti politici, alcuni senatori americani.
Tutto questo, ovviamente, rende poco chiaro il confine tra attivismo e disinformazione, tra impegno e propaganda. E molte sono ormai le documentazioni che mettono nero su bianco quanto le fake news, la disinformazione ma anche l’hate speech stiano imperversando e contribuendo a peggiorare le condizioni sul terreno di un conflitto che ormai va avanti da oltre un anno. Questa elaborata dall’European Institute of Peace sottolinea che, sulla base degli esempi raccolti, il 64% di fake news sono vere e proprie fabbricazioni, cose senza la benché minima base di verità, il 42% propaganda e informazioni basate sul pregiudizio, il 26% apertamente violente e basate sull’odio. Altro interessante lavoro di questo genere è quello del The Media Manipulation. Anche in questo caso – tra le altre cose – si parla della tecnica del “copia-incolla” da parte degli attivisti, ma non soltanto loro. E il primo report citato – cosa alquanto interessante – mette in guardia, e fa anche esempi di casi avvenuti, contro gli errori fatti dai giornalisti nella comprensione dei fatti (che quindi vengono raccontati non proprio correttamente) e contro le traduzioni inesatte o proprio sbagliate.
A questo punto bisogna tirare in causa gli stessi social, Facebook (ormai Meta) soprattutto, che possiede anche – tra gli altri – Instagram e Whatsapp. Un “piccolo” monopolio il cui cattivo uso può davvero fare molti danni collaterali. Perché se da un lato migliaia di account sono stati controllati e chiusi, molti altri sono scivolati via dal controllo di chi dovrebbe visionare che non si tratti di pagine abusive. Una ricerca diffusa a fine 2020 evidenziava i tanti fallimenti nella verifica di post che incitavano alla violenza proprio nelle zone più calde del mondo, del Medio Oriente e in quelle di lingua araba in genere. Tutto questo ha permesso per esempio, a gruppi (o a singoli) estremisti religiosi di usare l’arma letale dell’odio. Come è possibile che questo sia accaduto? Perché sembra che Facebook non abbia sufficienti persone (in seguito ha annunciato un miglioramento in questo senso) che parlano la lingua araba – o che ne capiscano determinati slang – da adibire ai controlli.
Ora, considerato che l’arabo è parlato da circa 420 milioni di persone (lingua dominante in Sudan) ed è una delle lingue più parlate al mondo cosa mai può accadere per lingue come l’amarico, l’oromonico, il tigrino? (Anche questi esempi, giusto per riflettere). Per non parlare degli errori degli algoritmi che non sono certo infallibili, anche questo oggetto di ricerche. A far venire fuori le magagne è stata – come si ricorderà – la gola profonda, ed ex data scientistdella compagnia, Frances Haugen, che ha diffuso alla stampa internazionale – e altre organizzazioni – una serie innumerevole di file. I “Facebook Papers” hanno così fatto capire tutte le falle, superficialità, e in alcuni casi malafede di un social che è divenuto nel tempo addirittura fonte primaria di notizie. Ed è proprio l’Etiopia uno dei Paesi dove la disinformazione e l’hate speech – che la piattaforma ha mancato di controllare adeguatamente – hanno causato i danni peggiori. Intanto, dal 6 novembre scorso Twitter ha sospeso il thread riguardante il Paese. “Stiamo monitorando la situazione” si legge nel tweet che annuncia la sospensione – “Incitare alla violenza o disumanizzare le persone è contro le nostre regole”. Un paio di giorni prima era stato Facebook a cancellare un post di Abiy Ahmed, in cui il primo ministro affermava che l’avanzata dei ribelli stava “spingendo il Paese verso la rovina” e esortava i cittadini a “organizzarsi e marciare con [qualsiasi] modo legale con ogni arma e potere… per prevenire, respingere e seppellire i terroristi TPLF”.
Ma torniamo al punto cruciale: l’affidabilità delle fonti, la capacità di chi fa informazione di districarsi tra notizie il più delle volte difficilmente verificabili, l’onestà di rimanere imparziali. Un’imparzialità difficile, anche da parte delle diaspore o delle seconde generazioni, che i Paesi di origine dei genitori li conoscono poco o niente. Ma torniamo per un attimo alla propaganda. Sotto questo nome sono state classificate (ma anche usate) anche le violenze, soprattutto su donne e bambini. Violenze fatte da entrambe le parti, dalle truppe etiopi come da quelle eritree (ci sono voluti quasi cinque mesi affinché il primo ministro Abiy ammettesse che tali truppe si trovassero nel Tigray), dagli uomini della milizia del Tigray, in questo caso su eritrei (in particolare, ripetiamo, le donne) rifugiati nella regione del Nord, e sulla popolazione civile nelle regioni Afar e Amhara a mano a mano che il conflitto si è allargato. Lo ha affermato un elaborato report congiunto della Commissione etiope per i diritti umani e l’Alto commissariato per i diritti umani della Nazioni Unite. E quello di Human Rights Watch. A questo punto si spera almeno che si smetta di diffondere artatamente ragionamenti (e notizie) che intendono scagionare qualcuno e incolpare altri. In cui alcuni vengono sempre e solo mostrati come vittime e altri gli unici colpevoli.
Ma neanche l’esposizione dei fatti, antitesi della propaganda, sarà mai garantita senza incertezze e qualche dubbio. Quello che si può certamente evitare è la retorica e la faziosità che hanno peggiorato le tensioni etniche – come afferma Zecharias Zelalem su al Jazeera – e che dai media si amplificano poi sul terreno. Comunque evolverà questo conflitto è chiaro che la cattiva informazione, le accuse senza appello e l’avversione reciproca che rimbalza sui social non aiuterà il dialogo e la presa in carico di una ricomposizione sociale. Infine, altra cosa certa, è l’intricata situazione in cui versa quella regione del Continente, il Corno d’Africa, che sembra in ebollizione e a cui tutto serve tranne un’informazione fatta con leggerezza e un uso improprio dei social. Lo abbiamo visto: gli interessi sono molteplici, le forze in campo diversificate e gli attori spesso invisibili – comprese le potenze straniere – e ancora più pericolosi di quelli immediatamente riconoscibili.
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