“Non finiremo mai di gridare #Nohatespeech, che non è una campagna, ma un modo di vivere nella comunità”
Di Elisa Marincola, per Articolo 21
Un anno simbolico, il 2015. L’anno della grande fuga, da guerre e repressione, che ha portato oltre un milione di persone a cercare la salvezza nel nostro continente, ma anche un anno spartiacque per il mondo delle notizie e della libera espressione. Si è aperto con la strage nella redazione di Charlie Hebdo e si è chiuso, ancora tragicamente, con la morte del documentarista siriano Naji Jerf e l’attentato a Omar Faruk, segretario generale del sindacato giornalisti somali. Ma per tutto il 2015, sui fronti internazionali come, magari in forme meno violente ma altrettanto inquietanti, a casa nostra, sono stati innumerevoli gli episodi che hanno visto vittime giornalisti, documentaristi, operatori, citizen journalist o mediattivisti che, su base volontaria ma non per questo meno professionali, decidono di dedicare il loro impegno a raccontare, denunciare, dar voce alle realtà costrette al silenzio e all’oblio. E cresce la voglia dei governi di tacitare le fonti d’informazione non omologate, dalla Turchia di Erdogan, pure finanziata dall’Europa, alla Spagna di Rajoy, passando per l’Ungheria di Orban e, di nuovo, la Polonia di Jaroslaw Kaczynski, per parlare solo dell’Europa.
Se guardiamo un po’ più oltre, lo scenario è sconfortante, senza arrivare ai 19 reporter uccisi tra Iraq e Siria, territori di guerra, nei paesi vicini, considerati amici dai governi occidentali, finiscono in carcere blogger o anche solo ragazzi che sui social hanno postato un’opinione critica sul potere costituito. In carcere e magari condannati a centinaia di frustate, o uccisi perché raccontano un conflitto sotterraneo, come i coraggiosi reporter di Radio Shabelle, in Somalia. O semplicemente scompaiono nel nulla, come continua ad accadere in Messico, paese degli oltre 100 (8 solo nel 2015) tra cronisti, blogger, mediattivisti uccisi dal 2000 nei modi più brutali o rapiti e mai più restituiti alle famiglie. E persino in Brasile, certo non un paese dittatoriale, ora si contano i giornalisti uccisi per le loro denunce di corruzione, abusi contro l’ambiente, traffici illeciti.
Lo spiega anche l’ultimo rapporto di Reporters sans Frontieres: violenze, assassini, sequestri di operatori della comunicazione avvengono sempre più spesso nei luoghi quotidiani del loro vivere e lavorare, e non solo in zone di guerra. Anche dentro le loro redazioni, come per i disegnatori di Charlie Hebdo o i giornalisti turchi presi di mira dalle autorità di Ankara. Una deriva che va respinta, a partire proprio dalla Turchia: per questo, il primo appuntamento che ci diamo per il 2016, insieme a UsigRai, Fnsi Rete Illuminare le Periferie, sarà con un sit-in davanti all’Ambasciata turca in Italia il 21 gennaio, giorno dell’udienza al processo contro Ceyda Karan, giornalista del quotidiano turco Cumhuriyet, colpevole di aver ripubblicato le vignette di Charlie Hebdo, e il giorno prima lanceremo una mobilitazione mediatica, sulla stampa, il web e i social, per usare come arma le stesse notizie che si vogliono oscurare sulla violenta repressione della comunità kurda, fin dentro le loro case. Mentre rilanciamo la richiesta di RSF perché l’Onu istituisca un rappresentante speciale per la protezione dei giornalisti che raccontano storie altrimenti oscurate.
Attacchi terroristici, intimidazioni, persecuzione, carcere, leggi liberticide oggi percepite dalle cittadinanze sempre meno come una violazione di diritti fondamentali, tanto si è riusciti a far passare nell’immaginario collettivo l’equazione giornalisti uguale casta, o peggio, strumenti della macchina del fango che raccontano una verità non per rendere un servizio all’interesse collettivo ma per sporcare, disturbare il cammino della modernità, scardinare realtà consolidate ma con basi d’argilla. Mentre cresce la voglia di dar voce agli istinti più violenti, scaricando sul diverso frustrazioni, paure, difficoltà economiche e culturali, convogliate in messaggi di odio verso lo straniero, l’arabo o l’ebreo, come verso gay, transessuali, fedeli di diverse religioni; parole di inciviltà purtroppo rilanciate spesso solo per raccogliere più audience o contatti. Non finiremo mai di gridare #Nohatespeech, che non è una campagna, ma un modo di vivere nella comunità.
E anche vicino a noi, nelle nostre terre, le cose non vanno molto meglio, se Ossigeno per l’Informazione nel corso del 2015 ha contato 521 casi di minacce o violenze o altre forme di intimidazione come sono le querele temerarie, un vero e proprio bavaglio, brandito spesso persino da esponenti delle istituzioni, e soprattutto ai danni dei cronisti di periferia, dei freelance senza un editore dietro, di blogger che non possono permettersi neanche di pagare un avvocato per difendersi. Ma anche i media più forti non si salvano, basti pensare alla maxi querela presentata da diversi legali degli imputati al processo di Mafia capitale contro ben 78 cronisti e 16 direttori delle loro testate, rei di aver diffuso e spiegato i contenuti delle intercettazioni, peraltro parte integrante di fascicoli ormai di dominio pubblico.
Lo sapeva bene Santo Della Volpe, grande inviato del Tg3, e direttore di LiberaInformazione dopo la morte di Roberto Morrione, eletto appena un anno fa presidente Fnsi. Uno di noi, socio fondatore di Articolo 21, Santo ci ha lasciato lo scorso luglio dopo una malattia che non gli ha impedito, fino all’ultimo, di battersi per quello in cui credeva, l’urgenza civile di una legge seria, chiara e severa per fermare la brutta deriva delle intimidazioni per vie legali. Un grande vuoto quello lasciato da Santo, anche su quel difficile fronte del lavoro dell’osservatorio su mafie e informazione in cui LiberaInformazione, da poco di nuovo attiva, non può essere lasciata sola.
Intimidazioni, querele, corruzione, ma in Italia pesa anche un quadro giuridico non favorevole alla piena attuazione dell’Articolo 21 della Costituzione. Non bastano le scorte ai cronisti minacciati, per alleggerirsi la coscienza; bisogna rimetter mano e approvare finalmente una legge di statura europea che blocchi sul nascere le querele temerarie; il testo in discussione sul reato di diffamazione a mezzo stampa non può in alcun modo prevedere il carcere per i giornalisti, che già devono affrontare imputazioni inaccettabili come la ricettazione, quando scrivono notizie apprese per vie non ufficiali ma di chiara rilevanza pubblica. La Corte europea di giustizia si è già ripetutamente pronunciata riconoscendo il diritto di cronaca in quanto prevalenteanche sui vincoli di segretezza, pronunce che l’Italia stenta a recepire.
E non rassicura neanche il cammino preso dalla riforma dell’uso delle intercettazioni, con una delega in bianco all’Esecutivo proprio su una materia che vede troppo spesso coinvolti esponenti della politica anche di primo piano, che ora si trovano a decidere se consentire o meno di vedere resi pubblici i propri contatti meno difendibili. Fatta salva, certo, la sacrosanta privacy ma anche il diritto di noi tutti a conoscere fatti, magari senza rilevanza penale, ma che ci coinvolgono quali parti in causa nella gestione della Cosa pubblica. Come ci coinvolge anche il destino del Servizio pubblico radiotelevisivo (magari anche multimediale), a cui è dedicato l’ultimo regalo prenatalizio della politica, l’approvazione di una riforma che consegna definitivamente nelle mani del governo e dello stesso Parlamento le decisioni cruciali sulla Rai, senza tuttavia definire quale sarà la missione vera che il potere politico consegnerà ai vertici di viale Mazzini. Non dimentichiamo che nel 2016 dovrà vedere la luce anche la nuova convenzione Stato-Rai: saranno recepite le indicazioni inviate da quanti ci lavorano come dalle realtà, sociali, economiche, intellettuali, fino ai semplici cittadini, che guardano ancora al Servizio pubblico come la più grande fabbrica di cultura del paese? Spetterà a ognuno di noi vigilare e agire.